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PASQUA - ROMA PASQUA 2011 - UOVA DI PASQUA - COLOMBA PASQUALE - QUARESIMA

LE ORIGINI DELLA PASQUA...

 

 

Festa di Pasqua: scopriamo le origini

La parola Pasqua deriva dall’aramaico “paschà” e dall’ebraico “pesach”. Nell’antico Testamento sta ad indicare il rito che si svolgeva in occasione del primo plenilunio di primavera e l’agnello che durante questa festa veniva immolato. Il suo significato doveva essere legato anche alla danza, ossia al saltare rituale che veniva effettuato all’interno della celebrazione. Questo perché in coincidenza con una festa primaverile - riportano le antiche scritture - Jahve “saltò oltre” e risparmiò le case israelitiche segnate dal sangue dell’agnello sacrificato. 
E’ evidente che la Pasqua giudaica, all’inizio, si presentava dunque come una festa nomade di primavera, collegata alla transumanza dei pastori della terra di Canaan. A questa prima concezione ben presto se ne aggiunse una seconda, la più nota: la Pasqua come celebrazione dell’Esodo degli ebrei dall’Egitto. Ovvero, la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù del Faraone, avvenuta - secondo alcuni - alla mezzanotte del 14° giorno del mese di Nissan del 1445 a. C. 
Gesù morì in occasione di una Pasqua giudaica e ciò, naturalmente, influì su quella che sarebbe poi diventata la tradizione pasquale cristiana. Alla base di tale processo è la lettura dell’Antico Testamento come prefigurazione del Nuovo. Il Concilio ecumenico di Nicea del 325 impose a tutte le Chiese di celebrare la Pasqua di Resurrezione la prima domenica dopo la prima luna piena che segue l’equinozio di primavera (21 marzo). E’ questo il motivo per cui la Pasqua cristiana è una festa “mobile”, “alta” o “bassa” a secondo degli anni.

di Annalisa Venditti

SPECCHIO ROMANO - SPECIALE PASQUA 2011

 

 

 

La Quaresima dei primi cristiani:
addio alla carne e ai suoi piaceri

Il diario di viaggio di Egeria, una pellegrina spagnola che tra il 381 ed il 384 si recò nei luoghi santi della Palestina, ci ha lasciato una dettagliata descrizione delle celebrazioni pasquali nei primi anni della Chiesa. I suoi appunti, compilati come una vera e propria cronaca, sono il primo resoconto completo in cui il ciclo pasquale compare strutturato in Quaresima, Settimana Santa, Ottava di Pasqua (ossia gli otto giorni che seguono la Resurrezione), Ascensione (il quarantesimo giorno dopo la Pasqua) e Pentecoste (i cinquanta giorni successivi). 
La Quaresima, periodo di preparazione e digiuno che i fedeli osservavano in memoria dello stesso tempo in cui Cristo era stato nel deserto, precedeva la celebrazione pasquale. In occidente si protraeva per quaranta giorni. A Gerusalemme, invece, era più lungo: venivano, infatti, esclusi dal computo sia il sabato che la domenica, giorni in cui non era permesso digiunare. All’astinenza, diversificata secondo i contesti e la volontà dei singoli, si univa la preghiera comunitaria e liturgica. 
Sappiamo che ai primi cristiani era vietato consumare la carne ed alimenti di natura animale come le uova e i latticini. Il digiuno comprendeva anche l'astinenza dal vino. Lo testimoniano gli scritti di S. Cirillo di Gerusalemme, S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo e Teofilo d'Alessandria. Ma non tutti riuscivano a sopportare le “torture” della penitenza. E, spesso, ci si poteva smarrire sulla via della santità. Anche se si era animati da un fervido sentimento religioso. Un fatto piuttosto curioso è quello che tra la metà del IV e gli inizi del V secolo vide come illustre protagonista il pastore Massimo di Torino. Esasperato dalla diffusa e ai suoi occhi deprecabile abitudine di non rispettare il digiuno, così rimproverava quanti, ed erano molti, non lo osservavano: “è vergognoso dirlo, ma i vecchi e le vecchiette fanno la quaresima, mentre i giovani e ricchi non la fanno!”. Il periodo di penitenza, tutto sommato, rendeva anche più buoni. Così gli imperatori Graziano e Teodosio, in vena di gesti misericordiosi, promossero nel 380 una legge che prevedeva durante questo periodo la sospensione di tutti gli atti giudiziari. Era una forma di indulgenza sociale, introdotta anche da Valentiniano II (375-392) con il rilascio di detenuti. Potremmo definirla una sorta di “pulizia” pasquale delle carceri. Dal canto suo, Sant’Agostino (354-430) invitava i cristiani non solo al digiuno alimentare, ma soprattutto ad evitare liti e contese, a praticare l’elemosina e la sospensione dei piaceri coniugali. Insomma, se penitenza doveva essere, che lo fosse “in” e “per” tutti i sensi.

di Annalisa Venditti

SPECCHIO ROMANO - SPECIALE PASQUA 2011

 

 

NELLA ROMA DI UNA VOLTA AL BANDO CARNE, UOVA, FORMAGGIO E DIVERTIMENTI
Le proibizioni della Quaresima

Con la solennità delle Ceneri è cominciata per i cattolici la Quaresima, periodo di penitenza in preparazione della Pasqua, molto osservato nei secoli passati, quando le autorità pontificie rinnovavano ogni anno i provvedimenti per disciplinare il digiuno. Per circa quaranta giorni non era consentito mangiare uova, formaggio e carne, a meno che non si fosse anziani e malati o non si ottenesse un permesso scritto. Non mancavano severi moniti ai medici, affinché non redigessero finti certificati di malattia, a meno che non volessero incorrere non solo nei castighi celesti, ma anche in quelli terreni, più sicuri e immediati. Secondo Giggi Zanazzo, però, c’erano "bbône ddispense p'er magnà dde grasso, che sse ponno co' ppochi sòrdi ottiene’ ddar curato de la parocchia".

A chi non voleva contravvenire alle regole restavano pane, verdure, legumi, baccalà e... maritozzi. "In quaresima pe' ddivuzzione – continuava Zanazzo - se magneno li maritozzi, anzi c'è cchi è ttanto divoto pe' mmagnalli, che a ccapo ar giorno se ne strozza nun se sa quanti".

Dagli editti era anche vietato "fare disordini, schiamazzi e scandali", soprattutto durante le frequenti cerimonie religiose. Anche perché a quanto pare le visite alle chiese per impetrare le indulgenze diventavano troppo spesso occasioni di incontri galanti.

Durante la Settimana Santa alle prostitute era proibito apparire in pubblico: non potevano circolare per le strade o ricevere uomini a casa, ma nemmeno recarsi alle stazioni quaresimali o ai sepolcri.

Le osterie dovevano restare chiuse di notte, mentre alle suore era persino proibito l’allestimento dei sepolcri, considerato un divertimento un po’ troppo mondano.

di Cinzia Dal Maso

SPECCHIO ROMANO - SPECIALE PASQUA 2011

 

 

COSA SI MANGIA A PASQUA?

 

Per molti popoli l’uovo rappresentava la vita e la fertilità

Antiche origini di un simbolo pasquale

Nell’antica Roma, per ottenere dagli dei un buon raccolto, i contadini usavano seppellire nei campi delle uova dipinte di rosso. Simbolo della vita e della fertilità della terra, le uova racchiudono un segreto millenario che accomuna popoli e religioni diverse.

Già in Egitto veniva loro attribuito un valore cosmico ed universale. I sarcofagi, ad esempio, erano considerati un guscio-involucro che proteggeva il corpo mummificato nel lungo viaggio dopo la morte. In Mesopotamia si credeva che l’Amore avesse avuto origine da un uovo. Astarte, la personificazione di questo nobile sentimento, era secondo la leggenda nata da un esemplare di straordinaria grandezza, rinvenuto dai pesci sul fondo del fiume Eufrate. Spinto a riva dalla corrente, era stato covato da una colomba, mostrando – solo al momento della schiusa - la sua meravigliosa "sorpresa".

La Grande Madre Cibele, emersa nuda dal Caos, aveva diviso il mare dal cielo e sfregando tra le mani il vento del nord, aveva generato un serpente. L’animale si era poi congiunto a lei. Divenuta una colomba, Cibele aveva deposto l’uovo cosmico. Da quell’uovo, dopo che il serpente lo avvolse sette volte, ebbero origine tutte le cose.

Pure il mito greco di Leda e il cigno ruota attorno alla simbologia dell’uovo, esempio di somma perfezione. La principessa venne a sua insaputa fecondata da Zeus, apparso sotto le mentite spoglie di un elegante uccello. L’unione originò due uova: in una erano i gemelli Castore e Polluce, nell’altra Clitennestra, moglie del re Agamennone, e Elena, la sposa di Menelao, tanto bella da scatenare la guerra di Troia. In un’antica leggenda indiana è narrato che fu un cigno a covare sulle acque l’uovo da cui ebbe origine il mondo.

Come augurio di immortalità, uova dipinte sono state rinvenute anche a Cartagine e nelle necropoli etrusche. A Tarquinia, ad esempio, un defunto della Tomba delle Leonesse (fine del VI sec. a.C.), è rappresentato mentre tiene tra le dita un piccolo uovo bianco, immagine della vita oltre la morte.

Per la cultura ebraica la sua superficie, perfetta e continua, rappresentava l’eternità della vita: per questo durante il banchetto non poteva essere spartito tra i commensali. La sua divisione avrebbe presagito la distruzione dell’esistenza. Il Cristianesimo accolse la simbologia dell’uovo sin dall’epoca di Sant’Agostino.

E il suo significato mistico venne legato alla Resurrezione di Cristo. L’uovo divenne così l’immagine della rinascita e della vita oltre le tenebre del peccato.

Pare che l’usanza di regalare le uova in occasione della Pasqua risalga al 1100, quando si diffuse la tradizione di benedirle e di offrirle in Chiesa la domenica di Pasqua.

A trovare per primo un sorpresa nell’uovo fu invece Francesco I di Francia, che agli inizi del ‘500 ricevette un guscio con all’interno un’incisione su legno della Passione di Cristo.

di Annalisa Venditti

SPECCHIO ROMANO - SPECIALE PASQUA 2011

 

 

Era il trionfo delle ghiottonerie esposte dai pizzicagnoli

Roma "de ‘na vorta" Il pranzo di Pasqua

L’aspetto sacro trovava la sua espressione nelle vetrine delle botteghe, nell’utilizzo "architettonico" di salami, prosciutti, salsicce e caciotte

Nei giorni immediatamente precedenti la Pasqua, nella Roma dell’Ottocento i negozi di generi alimentari, soprattutto i "pizzicagnoli", gareggiavano fra loro nel presentare la vetrina più ricca e ghiotta, dando sfogo ad una fantasia senza limiti. Una descrizione particolareggiata di queste mostre ci viene fornita da G.G. Belli: "Nelle due sere del giovedì e venerdì santo i pizzicagnoli addobbano le loro botteghe con una quantità tale di carni salate, di caci, ed altre somiglianti delicature, che ne sono totalmente ricoperti le pareti e i soffitti. Le varie forme e i diversi colori di simili oggetti, stimolanti l’appetito di un popolo che si dovrebbe supporre essersene astenuto per 46 giorni, vi sono calcolati e studiati all’ornamento più o meno elegante in proporzione del genio architettonico del pizzicagnolo. Inoltre, lontananze di uovi, con in fondo specchiere per raddoppiarle, stellette di talchi: zampilletti artificiali di acque: pesci natanti intorno ad uccelli rinchiusi gli uni e gli altri in campane di doppia fodera: misteri della Passione dipinti intorno a lanternoni di carta, bilicati, e aggirati dalle correnti opposte di gas e d’aria atmosferica mercé un’interna candela in combustione: finalmente, figure sacre e profane modellate in burro, o, se è freddo, anche in distrutto di maiale, ecc. ecc., formano, all’uopo di copiosa illuminazione a più colori, un corredo di pompa edificante che attrae un gran numero di divoti in giro di visita, ciò che per le donne specialmente diviene una specie di carnevaletto in quaresima".

E, ne "er giro de le pizzicarie", eccone una che colpì particolarmente il Belli: "De le pizzicarie che tutte fanno / la su’ gran mostra pe Pasqua dell’Ova, / quella de Biacio a la Ritonna è st’anno / la più mejo de Roma che se trova. / Colonne de caciotte, che saranno / cento a dì poco, arreggeno un arcova / ricamata a sarcicce, e lì ce stanno / tanti animali d’una forma nova. / Fra l’antri, in arto, c’è un Mosè de strutto, / cor bastone per aria com’un sbirro / ,in cima a una montagna de presciutto; / e sott’a lui, pe stuzzicà la fame, / c’è un Cristo e una Madonna de butirro / drent’a una bella grotta de salame".

Una tradizione che perdurò a lungo, superando i primi anni del Novecento, di cui ci fornisce una "gustosa" testimonianza Giggi Zanazzo nelle sue "Tradizioni Popolari Romane". Eccola: "Ne le du’ sere der gioveddì e vennardi ssanto, li pizzicaroli romani aùseno a ffa’ in de le bbotteghe la mostra de li caci, de li preciutti, dell’òva e dde li salami. Certi ce metteno lo specchio pe’ ffa’ li sfonni, e ccert’antri cce fanno le grotte d’òva o dde salami, co’ ddrento er sepporcro co’ li pupazzi fatti de bbutiro, che sso’ ‘na bbellezza a vvedesse. E la ggente, in quela sera, uscenno da la visita de li sepporcri, va in giro a rimirà’ le mostre de li pizzicaroli de pòrso (facoltosi), che ffanno a ggara a cchi le pò ffa’ mmejo".

Ma "l’urtimi ggiorni de quaresima – ricorda Zanazzo - se faceva l’ottavario der catechisimo o le ccusì ddette Missione. Er doppopranzo insinenta all’Avemmaria, tutti li negozzianti de Roma, compresi l’osti, li trattori, li tabbaccari, l’orzaroli, eccetra, chiudeveno le bbotteghe. E ognuno se n’annava a ppredica, indove la quale er predicatore spiegava la dottrina pe’ ppreparà’ li cristiani a ppijà’ la santa Pasqua. ".

Finalmente arrivava il giorno di Pasqua. Intorno alla tavola imbandita, avvolta dalla tovaglia più bella con sopra piatti e stoviglie splendenti, la famiglia riunita fremeva in attesa del pranzo succulento. Scriveva ancora Belli: "Ècchecce a Pasqua. Già lo vedi, Nino / la tavola è infiorata sana sana / d’erba-santa-maria, menta romana, / sarvia, perza, viole e rosmarino./ Già so’ pronti dall’antra sittimana / dieci fiaschetti e un bon baril de vino. / Già, pe’ grazzia de Dio, fuma er cammino / pe’ celebbrà sta festa a la cristiana. / Cristo è risusscitato; alegramente ! / In sta giornata nun s’abbadi a spesa, / e nun se pensi a guai un accidente. / Brodetto, oca, salame, zuppa ingresa, / carciòfoli, granelli e ‘r rimanente, / tutto a la grolia de la Santa Chiesa".

Le uova sode, meglio conosciute come "toste", venivano dipinte di rosso e offerte ai visitatori.

di Antonio Venditti

SPECCHIO ROMANO - SPECIALE PASQUA 2011

 

 

I romani ne apprezzavano le qualità alimentari e medicinali

Il carciofo, dall’Egitto alle tavole di Pasqua

Sulle tavole imbandite per la Pasqua non dovrà mancare uno degli ortaggi più gustosi della nostra tradizione culinaria, il carciofo, rigorosamente romanesco, grosso e tondeggiante, e preferibilmente cimarolo, ossia proprio il capolino centrale di ogni pianta, il più ricercato ma anche il più costoso. Osservandone attentamente la forma, infatti, si capisce subito che non si tratta di un frutto, ma di un’infiorescenza. La definizione botanica di Cynara Scolymus richiama il mito della bella e sfortunata ninfa Cynara, dai lunghi capelli color cenere, di cui si era invaghito Giove. Avendo osato respingere il nume, la fanciulla fu trasformata in una pianta, spinosa e pungente, come suggerisce l’aggettivo greco scolymos. Il nome attuale, invece, deriva dal termine arabo harsciof, o al-kharshuf, che significa spina di terra e pianta che punge. Secondo alcuni l’ortaggio era già conosciuto e apprezzato dagli egiziani, che lo avrebbero conosciuto dagli etiopi.

Certamente i romani ne facevano largo uso, come testimoniano Plinio il Vecchio e Columella, che nel suo "De Re Rustica" ne conferma la coltivazione sia a scopo alimentare che medicinale. Il carciofo, infatti, diuretico e leggermente lassativo, stimola le funzioni epatiche, esercitando un’azione benefica nelle forme itteriche. E’ inoltre antinfiammatorio e antipruriginoso.

Secondo Apicio, il raffinato gastronomo del I secolo d.C., i carciofi si potevano mangiare conditi con la solita salsa di pesce, olio e fettine di uova sode. Oppure, si dovevano ricoprire con un trito di erbe aromatiche fresche: ruta, menta, coriandro e finocchio, aggiungendo poi pepe, ligustico, miele, salsa di pesce e olio. In un’ultima ricetta i carciofi, sempre prima lessati, sono insaporiti con pepe, comino, salsa di pesce e olio.

Nel Medioevo il carciofo sembra fosse caduto nell’oblio, anche se la mancata citazione nelle fonti letterarie non ne fa escludere del tutto l’uso. In ogni caso, con il Rinascimento anche il saporito ortaggio conobbe una sua seconda vita. Un’ampia e dettagliata letteratura ne registra la coltivazione in varie regioni italiane. Pietro Mattioli, famoso medico senese vissuto nel XVI secolo, scriveva nel suo trattato sulle piante medicinali: "veggonsi ai giorni nostri in Italia carcioffi di diverse sorti: spinosi, sia serrati che aperti, non spinosi, rotondi, lunghi, aperti e chiusi, e di quelli che rassemblano alle pine dei pini".

di Annalisa Venditti

SPECCHIO ROMANO - SPECIALE PASQUA 2011

 

 

 

LE CIAMBELLE CRESCIUTE, PER UNA VITA PIÙ DOLCE

Dolci e fragranti, da mettere assolutamente sulla tavola di Pasqua ma adatte a qualsiasi periodo dell’anno: sono le ciambelle cresciute, diffusissime in Ciociaria, ma entrate a far parte della tradizione culinaria romana. La preparazione è molto semplice, occorre solo armarsi di un po’ di pazienza per la lievitazione della pasta. Per fare un bel vassoio di ciambelle occorrono 6 uova, un bicchiere di olio e uno di latte, una grattata di limone, un quadruccio di lievito di birra e circa un chilo e mezzo di farina. Si fa intiepidire il latte e vi si scioglie il lievito, che poi si aggiunge in una bacinella a tutti gli altri ingredienti. Si può anche unire una manciata di uva sultanina ammollata e strizzata. Si lavora ben bene l’impasto, fino a che si stacca dalle mani, aggiungendo, se occorre, altra farina. Ora non resta che coprire la bacinella con un canovaccio e metterla nel luogo più caldo della casa, lontana dalle correnti d’aria. Se fa troppo freddo, si può scaldare leggermente il forno, poi spegnerlo e metterla dentro. Il tempo della lievitazione varia a seconda della temperatura e delle condizioni meteorologiche, da un paio d’ore a un’intera notte. In ogni caso, il volume dell’impasto deve raddoppiare. A questo punto, si ricavano le ciambelle prendendo una pallina d’impasto, bucandola al centro e allargandola, quindi si dispongono sulle teglie foderate con la carta da forno. Si spennellano con il rosso d’uovo battuto e si lasciano riposare per un altro paio d’ore, finché la superficie non sarà bella tesa e omogenea. Si mettono nel forno ben caldo e si fanno cuocere a 180 gradi per una decina di minuti, facendo attenzione che non brucino sotto. Appena sono belle dorate si tolgono dal forno.

di Cinzia Dal Maso

SPECCHIO ROMANO - SPECIALE PASQUA 2011

 

 

Una storia millenaria per la dolce colomba pasquale

Un simbolo di pace sulle tavole in festa

Artigianale, confezionata, mandorlata, con o senza canditi, farcita dalle creme più gustose: è la colomba, il soffice dolce della mensa pasquale. Sulle tavole imbandite a festa porta con sé il retaggio di una storia millenaria che si perde nella notte dei tempi e rinasce nel messaggio cristiano della morte e resurrezione di Gesù Cristo. Già nell’antica Grecia le colombe si veneravano come uccelli sacri alla dea dell’amore Afrodite e del suo sfortunato amante, Adone. I Romani, che alla divinità avevano dato il nome di Venere, si cibavano delle uova di colomba pensando che predisponessero alle fantasie e ai piaceri dell’amore. Secondo la medicina antica, le pacifiche colombe non producevano bile. Per gli egiziani e i cinesi il loro grande senso dell’orientamento permetteva di impiegarle nella consegna di messaggi: le colombe tornavano sempre al loro nido.

Nella Bibbia la colomba, messaggera di pace, annuncia la fine del diluvio universale consegnando a Noè un ramoscello d’olivo. Lo Spirito Santo è rappresentato spesso da questa amabile creatura: così nel Battesimo di Gesù nel Giordano e nell’Annunciazione a Maria Vergine.

Il "Phisiologus", una raccolta in greco composta ad Alessandria d’Egitto nel II d. C., riporta interpretazioni allegoriche e morali di diversi animali (ottima l’edizione di Giulio Einaudi Editore curata da Luigina Morini). A proposito della colomba è scritto: "ne esistono di molti e diversi colori. C’è il colore screziato, nero, bianco, rosso, giallo-oro, celeste, cinerino, dorato, miele. Ma sopra tutte primeggia la colomba rossa, che tutte le governa e pacifica, e ogni giorno riunisce nella sua colombaia anche le colombe selvatiche. E’ colui che ci redense con il suo prezioso sangue e radunò noi da popoli diversi nell'unica casa della Chiesa".

Spiegando l’etimologia della parola, il "Phisiologus", testo che può essere considerato "padre" di tutti i Bestiari medievali, precisa che "la colomba selvatica viene chiamata uccello casto per i suoi costumi. Infatti si dice che una volta rimasta vedova se ne stia solitaria e non ricerchi più l’accoppiamento fisico".

All’interno di una profonda metafora, carica di significati, spiega che "in India c’è un albero ambidestro, il cui frutto è straordinariamente dolce e assai gradevole. Le colombe amano molto le attrattive di questo albero, perché si ristorano con i suoi frutti e si riposano sotto la sua ombra e sono protette dai suoi rami. C’è infatti un drago crudele nemico delle colombe, e quanto le colombe temono il drago e lo fuggono, altrettanto il drago evita e teme molto l’albero, tanto che non osa avvicinarsi neppure alla sua ombra. Se l’ombra dell’albero è a destra, egli si sposta a sinistra, se invece l’ombra dell’albero è a sinistra, si sposta fuggendo a destra: le colombe, sapendo che il loro nemico drago teme l’albero e la sua ombra e non può avvicinarsi, fuggono sull’albero e gli si affidano per salvarsi dalle insidie del loro avversario, Infatti finché sono su quell’albero e si trattengono lì, il drago non può prenderle in nessun modo. Se invece ne trova qualcuna lontana anche di poco dall’albero o fuori della sua ombra, subito la ghermisce e divora". Nell’allegoria cristiana la colomba rappresenta dunque il Cristo salvatore e la schiera di fedeli che, tentati dal male, devono rifugiarsi tra le braccia della Chiesa.

Così nel giorno di Pasqua, in cui si celebra il mistero della Resurrezione, un dolce ne rinnova la salvifica promessa. Ma all’esegesi biblica si affiancano le credenze popolari. Secondo una leggenda pavese, nel 572 una soffice colomba pasquale venne offerta al re longobardo Alboino, mentre riceveva l’omaggio della cittadinanza conquistata, da un astuto vecchio che in cambio del dono strappò al sovrano l’incauta promessa di "rispettare sempre le colombe". Quando al cospetto di Alboino si presentarono dodici belle fanciulle che dissero in coro di chiamarsi Colomba, il Longobardo - per mantener fede alla parola data - dovette rinunciare a qualsiasi proposito su di loro. Un dolce stratagemma aveva salvato l’onore delle giovani pavesi.

di Annalisa Venditti

SPECCHIO ROMANO - SPECIALE PASQUA 2011

 

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