Amati
e odiati, nemici dell’alta velocità e dei tacchi a spillo, i selci o
"sampietrini" che lastricano ancora oggi molte strade del centro storico di Roma
sono da tempo al centro di polemiche. Questi blocchetti di lava basaltina devono
forse il loro nome al fatto che sono stati usati anche per pavimentare l’enorme
piazza San Pietro. Non venivano cementati, ma semplicemente posati e poi battuti
su un letto di sabbia o pozzolana a mezzo dei tipici "mazzabecchi" di legno
sollevati da terra e poi lasciati pesantemente ricadere con ritmo regolare da
due robusti operai.
Il dibattito tra i
loro sostenitori e i loro detrattori ha origini lontane e risale almeno al tempo
di Sisto IV (1471 – 1484), un pontefice molto impegnato nel rinnovamento
urbanistico di Roma, che ricostituì l’ufficio dei curatori delle pubbliche vie
per sovrintendere all’allargamento e alla regolarizzazione delle strade
adiacenti ai nuovi edifici. Secondo l’opinione che finì con il prevalere, la
lava basaltina è una roccia compatta e assolutamente impermeabile, che non
assorbe né lascia passare l’acqua, tanto è vero che in molti punti di Roma
rivolti a nord il selciato, soprattutto nelle ore notturne, risulta bagnato
anche con il sereno, perché vi si deposita tutta l’umidità dell’aria.
Così Sisto IV finì
con il pavimentare con i mattoni il tratto di strada papale corrispondente
all’odierno Corso Vittorio Emanuele, fra Sant’Andrea della Valle e il Ponte
Sant’Angelo, come ricorda il Ciacconio nella biografia del Pontefice.
Ancora dopo la
morte di papa Della Rovere, nel 1489, Saba Porcari fece ammattonare tutta la
piazza di Campo de’ Fiori, con la bella spesa di 210 fiorini d’oro.
Per motivi di
praticità e di economia, non erano pochi i proprietari di case che sistemavano
la strada davanti alle proprie abitazioni con dei selci molto più piccoli dei
basoli usati dagli antichi romani, ma certo più grandi di quelli odierni.
Contro di loro si
scagliò la bolla di Pio IV del 1565, diretta ai "Magistri urbis", la cui
traduzione dal latino suona più o meno così: "Roma è molto soggetta all’umidità
e in talune parti con la selciatura le strade divengono anche più umide. Perciò
proibiamo a chiunque di fare selciati, anche se davanti alle proprie case, sotto
pena dell’esilio ai muratori, di 200 ducati di multa ai padroni e altre pene
pecuniarie e corporali ad arbitrio. Vogliamo invece che tutte le vie di Roma
siano coperte di mattoni cotti, con le interlinee, chiamate guide, di peperino,
travertino e pietra silicea". Tali guide servivano per meglio resistere al
cammino delle carrozze.
Il sistema a
mattoni era però piuttosto costoso.
Da
un processo per inadempienza celebrato nel 1586 contro gli appaltatori della
nettezza di Roma, si viene a sapere che le strade erano tutte fatiscenti e che
il mattonato costava tre scudi (ossia circa 30 giuli) la canna quadrata e il
selciato solo 22 giuli.
Fu quindi con Sisto
V (1585 – 90) che la lastricatura a selciato si impose nelle vie di Roma. Dai
registri dei suoi mandati risulta che, tra il gennaio e il luglio del 1587, tale
Pontefice diede ordine al suo tesoriere di pagare ai maestri delle strade per la
loro lastricatura ben cinquemila scudi, con i quali, al prezzo corrente, si
dovevano realizzare circa diecimila metri quadrati di selciato. Gli avversari
del selcio non si erano ancora dati per vinti e nell’agosto del 1588 la
Congregazione dei Cardinali preposti al piano regolatore ordinò al Consiglio
comunale di lastricare le strade cittadine con i mattoni. Ma sarebbero stati gli
ultimi colpi di coda. I mattoni erano inadatti a sostenere il traffico sempre
crescente delle carrozze.
Nella tranquilla
Roma papalina del primo Ottocento il selciato davanti casa era considerato quasi
un lusso, come spiega Giuseppe Gioachino Belli nel sonetto "La fanga de Roma",
composto il 28 marzo 1834. "Questa? eh nnemmanco è ffanga. Pe vvedella / s’ha d’annà
a li sterrati a ppiazza Poli / indov’abbito io; ché ssi nun voli / ce trapassi
in barchetta o in carrettella. / Ce fussi armeno un po’ de serciatella / attorn’attorno,
quattro serci soli, / a mette er piede e annà ssott’a li scoli / de le gronnàre!
ma nemmanco quella. / Pe rricrami ne fàmo oggni tantino; / e allora ècchete dua
cor un treppiede / un cannello coll’acqua e un occhialino. / E a sti scannajji
tu cce pijji fede: / ebbè, sò ggià ddiescianni cor cudino / e la serciata ancora
nun ze vede".