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GLI EROI DEL RISORGIMENTO ROMANO

ANDREA AGUYAR

SAMUELE ALATRI

COLOMBA ANTONIETTI

ANGELO BRUNETTI

GIACINTO BRUZZESI

LUIGI CALAMATTA

Alessandro Calandrelli

LUDOVICO CALANDRELLI

MELCHIORRE CARTONI

FILIPPO CASINI

AUGUSTO CASTELLANI

alessandro CASTELLANI

LE SORELLE CASTELLANI

LUIGI CECCARINI

FILIPPO CERROTI

Giuseppe Checchetelli

NINO COSTA

Anna de Cadilhac

FILIPPO DE CUPIS

NATALE DEL GRANDE

BARTOLOMEO FILIPPERI

MARGARET FULLER

GEROLAMO INDUNO

JAN PHILIP KOELMAN

ANNIBALE LUCATELLI

CESARE LUCATELLI

Lorenzo Maderazzi

GOFFREDO MAMELI

MATTIA MONTECCHI

CLELIA NALLI MASSIMI

PAOLO NARDUCCI

GIOVANNI ANGELO OSSOLI

RIGHETTO

PIETRO ROSELLI

FELICE SCIFONI

ULISSE SENI

FRANCESCO STURBINETTI

Giuditta Tavani Arquati

ANGELO TITTONI

GAETANO TOGNETTI

Cristina Trivulzio di Belgiojoso

AUGUSTO VALENZIANI

 

Un libro di Claudio Modena su Angelo Brunetti

Ciceruacchio, capopolo romano

Angelo Brunetti era nato a Roma il 27 settembre 1800, nel popolare rione di Campo Marzio. Nella più tenera età la madre gli aveva dato il soprannome di Ciceruacchio per il suo aspetto paffuto. Una volta cresciuto, si era messo a fare il carrettiere e tra-sportava vino dai Castelli al porto di Ripetta. Personaggio carismatico, semplice e schietto, amato da popolo, con un’innata capacità dialettica rafforzata dall’uso esclu-sivo del romanesco e una naturale eleganza nel vestire, fu presto conquistato dagli i-deali risorgimentali, di cui si fece portavoce fra i popolani. In un primo momento era stato capace di avvicinare il popolo a Pio IX.

"Ciceruacchio. Angelo Brunetti, capopopolo di Roma", uno straordinario volume di Claudio Modena (Mursia, 306 pagine, 20,00 euro), è stato presentato presso l’Istituto internazionale di studi "Giuseppe Garibaldi" (piazza della Repubblica 12), diretto da Franco Tamassia.

"Non è un libro ma un film, che ci fa ritrovare in mezzo ai rumori, ai suoni, alle emo-zioni", ha spiegato Giuseppe Garibaldi, presidente dell’Associazione e pronipote dell’Eroe dei Due Mondi, che ha voluto anche dare uno speciale annuncio. "Stiamo organizzando per il 3, il 4 e il 5 luglio – ha detto – un pellegrinaggio a Caprera per il nuovo museo dedicato a Garibaldi che sarà inaugurato dal Capo dello Stato".

Del libro di Modena ha parlato Silvana Galardi, scrittrice e storica del Risorgimento. "Questo volume – ha sottolineato – mi ha consentito di avvicinarmi a una figura di primo piano e di capire il perché di alcuni atteggiamenti di Pio IX. La grandezza di Ciceruacchio, messa in evidenza da Modena, è stata il suo sguardo lungimirante che attraverso la Repubblica Romana vedeva già l’Italia".

Il sogno però era destinato a durare poco. Il 2 luglio del 1849 la neonata Repubblica romana cadeva, e quella stessa sera Ciceruacchio con i figli Luigi e Lorenzo, di soli tredici anni, usciva da Roma, occupata dalle truppe francesi, attraverso Porta San Giovanni. Marciava al seguito di Garibaldi verso Venezia, per portare aiuto alla mo-rente Repubblica Veneta. Nel suo animo ancora viva la passione per gli ideali di li-bertà per cui aveva lottato, ma anche tanta amarezza nel lasciare la sua amata città, la moglie Annetta e gli amici.

Nel suo libro, Modena ricostruisce la breve avventura di Ciceruacchio, dall’appassionata fiducia riposta nel Papa Re all’adesione agli ideali mazziniani e alla Rivoluzione del 1849, dalla caduta della Repubblica Romana alla tragica fine: fu fu-cilato insieme con i suoi figlioli la notte di San Lorenzo dello stesso anno a Porto Tolle, presso Rovigo.

"E se, come ha messo ben in evidenza Modena, la Repubblica Romana cadde, i suoi valori sono quelli su cui si è fondata l’attuale Repubblica Italiana", ha concluso Sil-vana Galardi.

di Cinzia Dal Maso

 

Fu uno dei dirigenti del Comitato romano

Giuseppe Checchetelli, letterato e patriota

Giuseppe Checchetelli era nato a Roma il 25 novembre 1823 da Antonio e da Vincenza Campanelli, entrambi di Ciciliano, presso Tivoli. Fu battezzato nella chiesa di S. Andrea delle Fratte. La sua casa, all’altezza del civico 79 di via Due Macelli, è oggi scomparsa.

Si laureò in giurisprudenza, senza mai esercitare la professione di avvocato. Le sue grandi passioni furono l’attività letteraria e soprattutto quella politica. Infatti, come disse Terenzio Mamiani, "quantunque fornito di buoni studi letterari e bene avviato alla carriera giuridica, nulla valse a distrarlo dall'amore suo intenso ed inestinguibile per la gran causa nazionale. Ancor giovinetto assaggiò lo squallore del carcere per sospetti ed accuse che non potettero essere provate". Scrisse "Il burbero benefico", un melodramma rappresentato al teatro Valle nel 1841, con le musiche di A. Carcano. Del 1842 è il volume "Una giornata di osservazione nel palazzo della villa di S. E. il principe d. Alessandro Torlonia". Particolarmente interessanti le "Memorie della Storia d’Italia considerata nei suoi monumenti" (1842 – 43).

Si entusiasmò per le aperture liberali di Pio IX e organizzò dimostrazioni del Circolo Popolare.

Nel '48 si arruolò fra i volontari, nella prima Legione romana, destinata a diventare il 10° reggimento di linea. Partì sottotenente e prese parte alla difesa di Vicenza. Quello stesso anno fu promosso tenente e poi capitano aggiunto nello Stato Maggiore della prima Legione. Fu poi nominato segretario della Legione e in seguito membro del Consiglio di Guerra della Divisione.

Quando era ancora sottotenente fu ferito e grazie alla sua condotta ottenne una menzione d’onore.

Uno volta tornato nella città natale, partecipò alla difesa della Repubblica Romana, combattendo sia a Velletri che sul Gianicolo.

Nel febbraio del 1850 aveva subito un breve arresto, perché ritenuto coinvolto in un curioso incidente: mentre passeggiava in carrozza con la sorella lungo la via del Corso, durante il Carnevale, il figlio primogenito del principe di Canino aveva ricevuto un mazzo di fiori che conteneva una granata. L’esplosione dell’ordigno aveva ferito, fortunatamente in maniera non grave, i due fratelli. Una volta scarcerato, il Checchetelli preferì andare a vivere nel paese d’origine dei genitori. Lì lo andò a cercare il pittore e patriota Nino Costa, che lo convinse a tornare a Roma, dove trovò anche lavoro, come bibliotecario del duca Lorenzo Sforza Cesarini, per trenta scudi al mese. Il Checchetelli fu tra coloro che tentavano di rafforzare quell’Associazione nazionale di cui Mazzini aveva fondato a Roma il primo nucleo.

Dopo un tentativo di rivolta fallito sul nascere nel 1853, la pressione della polizia pontificia lo costrinse a rifugiarsi nuovamente a Ciciliano. Tornato a Roma, entrò nella dirigenza del Comitato nazionale romano e si impegno nelle manifestazioni a favore della seconda guerra d’indipendenza.

Nel 1861 si vide costretto a emigrare a Torino, dove si mise a disposizione del ministro Ricasoli. Da più parti era ritenuto, insieme con Augusto Silvestrelli, il rappresentante ufficiale dei liberali romani. Per Paolo di Campello era un "uomo antico, tanta era la rettitudine del suo carattere". Secondo Raffaele De Cesare "possedeva un grande equilibrio di spirito".

Ricasoli considerava il Comitato romano una sorta di partito da tenere vicino al Governo e a cui affidare un’opera di propaganda, informazione e preparazione di varie iniziative a sostegno dell’azione unitaria.

Checchetelli fu deputato dal 1861 al 1870, ma senza svolgere una particolare attività parlamentare e limitando i suoi interessi alla questione romana o all’emigrazione.

Il fallimento della rivolta dell’autunno del 1867, culminata nella sconfitta garibaldina di Mentana, portò un vespaio di polemiche sul Comitato romano. Checchetelli, su cui piovvero le denunce, per lo più ingiuste, di aver trascurato la preparazione dell’opinione pubblica e il rafforzamento del partito, scomparve dalla vita politica e pubblica italiana. Solo nel settembre del 1870 fu chiamato, insieme a altri esperti, a ragguagliare il ministro Visconti sull’eventualità di una insurrezione romana. Tornò a Roma dopo la breccia di Porta Pia, senza ruoli politici particolari.

Fino da giovane aveva sofferto di mal di fegato, che andava peggiorando con il trascorrere degli anni. Nel 1874 il dottor Francesco Sani, un liberale suo amico, lo operò di calcoli, senza ottenerne la guarigione.

Morì in povertà a Roma il 19 marzo 1879.

di Cinzia Dal Maso

 

Repubblica Romana e comunità ebraica

Samuele Alatri

La breve ma intensa esperienza della Repubblica Romana del 1849 vide l’attiva partecipazione di un gran numero di esponenti della comunità ebraica di Roma, che finalmente erano potuti uscire dal ghetto e venivano considerati cittadini con parità di diritti. Furono anche chiamati a partecipare alla gestione della cosa pubblica e alla difesa della città, con l’arruolamento fino dall’aprile del 1849 nella Guardia nazionale, dalla quale erano stati sempre esclusi. Ebbero anche tre rappresentanti nel consiglio municipale: Samuele Alatri, presidente della comunità, Samuel Coen ed Emanuele Modigliani, nonno di Amedeo, il famoso artista.

Non bisogna dimenticare che Mazzini provò sempre per il popolo ebraico una viva simpatia, che si rafforzò nel corso degli anni.

Samuele Alatri era nato a Roma il 30 marzo 1805 da una benestante famiglia di commercianti. Aveva appena ventitrè anni quando entrò nel consiglio direttivo della comunità israelitica romana e per molto tempo si trovò a trattare con Gregorio XVI e con Pio IX alcune questioni relative alla segregazione razziale. In particolare, nel periodo delle riforme di quest’ultimo pontefice, il 18 aprile 1848 erano cadute le porte del ghetto. Riuscì a ottenere da Gregorio XVI che il Monte di Pietà di Roma - di cui dal 1875 sarebbe diventato direttore - concedesse prestiti su pegni anche agli ebrei, che prima ne erano esclusi. Nel 1850 entrò a far parte del consiglio di reggenza della Banca dello Stato Pontificio, la futura Banca Romana. Riuscì a salvarla dalla crisi del 1855 e poi presentò un progetto di riforma generale delle banche dello Stato.

La sua formazione liberale-moderata lo spinse a partecipare, tra il 1848 e il 1849, al Municipio romano e a stringere legami politici e personali con Terenzio Mamiani, Marco Minghetti e Francesco Sturbinetti, di cui divenne consulente. "Er papa der ghetto", come era soprannominato Alatri, fece parte della delegazione che portò a Vittorio Emanuele il risultato del plebiscito dell’ottobre del 1870 per l’annessione di Roma all’Italia. Fu consigliere comunale dalle elezioni del 13 novembre 1870 fino alla morte. Dal 1870 al 1874 ricoprì anche la carica di assessore alle finanze, entrando in contrasto con il governo per la ripartizione dei beni ecclesiastici e per gli stanziamenti a favore delle opere edilizie della capitale. Nelle elezioni amministrative del 1887 fece parte, insieme con Urbano Rattazzi e altri, della lista dell'Unione romana, di tendenza cattolico-moderata. A tale proposito, sembra che Pio IX avesse detto: "Samuele Alatri è il più cristiano di quei cristiani del Campidoglio".

Fu anche deputato nella XII legislatura, dal 1874 al 1876. Eletto per il collegio di Roma II, svolse attività limitata alle commissioni. Si candidò nuovamente nel 1876, in opposizione alla sinistra, ma fu battuto. Nel 1880 fu a capo di un Consiglio straordinario per la riorganizzazione della comunità ebraica di Roma. Dal 1886 fino alla morte, presiedette il Consiglio generale ordinario.

Si spense a Roma il 20 maggio 1889.

di Cinzia Dal Maso

 

Un libro sull’eroina di Cinzia Dal Maso

Colomba  Antonietti

E’ stato presentato domenica scorsa a Trastevere, presso il Laboratorio della Individuazione di vicolo del Cedro 5, il libro di Cinzia Dal Maso "Colomba Antonietti. La vera storia di un’eroina" (EdiLazio, 186 pagine, 12 euro). Il saggio è dedicato alla appassionante vicenda di una giovane donna umbra che si innamorò contro il volere della famiglia del nobile cadetto pontificio Luigi Porzi, lo sposò e poi combatté con lui vestita da uomo, fino al tragico epilogo, che la vide il 13 giugno del 1849 stroncata da una palla di cannone francese, mentre difendeva la Repubblica Romana assediata dalle truppe del generale Oudinot.

Ha moderato l’incontro la psicologa Angela Maria Bartalotta, mentre la psichiatra Anna Maria Meoni ha condotto una brillante analisi del testo di Cinzia Dal Maso, soffermandosi soprattutto su quella che ha definito "una storia nella storia": le numerose metamorfosi subite attraverso il tempo dalla figura di Colomba Antonietti, divenuta di volta in volta la donna che la società preferiva vedere in lei. Si riuscì persino a mortificare il suo sacrificio riducendola a una ragazza incosciente e impulsiva che era morta semplicemente perché aveva deciso di andare a incontrare il marito sul campo di battaglia. La polemica era portata avanti soprattutto da chi, come scrive l’autrice, "non poteva ammettere in una donna azioni e sentimenti considerati tipicamente maschili. In poche parole, una donna non deve travalicare i limiti che le ha imposto la natura e che sono quelli di figlia obbediente, madre e sposa fedele".

La giornalista Annalisa Venditti, docente della Pontificia Università Urbaniana, ha letto alcuni brani del volume, a cominciare dalle note introduttive, in cui la Dal Maso spiega come ci sia "ancora una storia in gran parte da scrivere, quella delle tante donne, di tutte le classi sociali, che diedero il loro contributo alla difesa di Roma. La storiografia ufficiale ha tentato di seppellirle sotto il velo dell’oblio, oppure di sminuirne l’importanza". Un altro passaggio importante del libro è quello che analizza i pochi reperti provenienti dalla tomba di Colomba Antonietti in San Carlo ai Catinari. "Dopo aver preso in esame questi oggetti nel loro insieme – continua Cinzia Dal Maso – credo di poter ipotizzare che siano stati posti con uno scopo ben preciso. Costituirebbero una sorta di epigrafe crittografata per rendere riconoscibile il corpo anche a distanza di molto tempo. I reperti andrebbero letti così: Colomba Porzi (il bottone con le iniziali C.P.), moglie di Luigi (la medaglietta con San Luigi), morta il 13 giugno (la medaglietta con Sant’Antonio, che si festeggia quel giorno), alla Madonna dei Sette Dolori (il medaglione)".

La seconda parte del volume è dedicata alle donne della Repubblica Romana, da quelle che combatterono in prima fila come Colomba Antonietti a quelle impegnate nell’organizzazione del soccorso ai feriti.

di Alessandro Venditti

 

 

Il Risorgimento dei romani

L’audace Righetto

Da qualche anno sul Gianicolo, tra i monumenti agli eroi del Risorgimento, c’è una nuova, importante memoria: la statua di Righetto, copia in bronzo di Pasquale Nava del marmo eseguito nel 1851 da Giovanni Strazza e conservato nel palazzo Litta di Milano. E’ un omaggio ai tanti ragazzini che sacrificarono la loro vita nella difesa della Repubblica Romana del 1849 ed è raffigurato a torso nudo, con un paio di calzoncini laceri, il braccio sinistro alzato dopo aver strappato la miccia a una bomba. Tra le sue gambe è una vispa cagnolina, sua compagna di avventura e di sventura.

Di Righetto si sa molto poco. Aveva dodici anni, era biondo e mingherlino ed era rimasto orfano. I bottegai di Trastevere gli affidavano delle piccole commissioni, facendogli guadagnare qualcosa per sopravvivere. Sembra che una volta avesse perfino trovato lavoro da un macellaio. Ma quando questi gli diede uno schiaffone per non si sa quale mancanza, Righetto gli tirò lo schifo e scappò via.

Arrivarono i giorni dell’assedio di Oudinot a Roma. I cannoni battevano in breccia le mura gianicolensi e le bombe cadevano nel cuore della città, portando morte e distruzione. Il comportamento dei romani, però, era di una compostezza e di un coraggio incredibili. Scriveva Garibaldi ad Anita in una lettera del 21 giugno: "qui le donne e i ragazzi corrono addietro alle palle e bombe gareggiandone il possesso".

"L'intervallo medio, tra la caduta e l'esplosione, era di 10 a 12 minuti secondi", spiegava Gustav von Hoffstetter. "Non saprei a quale dei due motivi attribuire, se all'audacia o all'ignoranza del pericolo, il precipitarsi che faceva la nostra gente sur una bomba, per soffocarla, allorché essa ardeva alcuni secondi più del solito. Molte bombe ci furono in tal modo portate, aventi la spoletta o ricacciata dentro, o strappata, o tagliata via. Per ognuna si pagava uno scudo". Naturalmente Righetto era tra i più svelti a gettarsi sulle bombe per soffocarle con uno straccio bagnato. Un giorno, mentre stava con alcuni suoi compagni vicino a piazza Mastai, un ordigno cadde proprio vicino a lui. Accorse immediatamente per spegnerlo, ma quello esplose in un inferno di fumo e schegge, dilaniando anche quella che era ormai tutta la sua famiglia, la fedele cagnetta Sgrullarella. Il ragazzo fu raccolto in condizioni disperate. Era impossibile portarlo al Santo Spirito: troppe le bombe che piovevano sulla strada per l’ospedale. Il medico Romano Feliciani gli prestò le prime cure, quindi lo fece condurre prima nella sua abitazione di via Sistina e poi in via Belsiana, presso una vecchietta caritatevole, una certa Marta Ranieri. Il ragazzo, però, era orrendamente mutilato e spirò dopo alcune settimane tra grandi sofferenze.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Augusto Castellani

Augusto Castellani era figlio di Fortunato e di Carolina Baccani e fratello di Alessandro. Nato a Roma l’11 gennaio del 1829, si dedicò agli studi classici, ma anche all’oreficeria, seguendo le orme paterne. Tutta la sua vita fu caratterizzata da un fortissimo attaccamento alla religione cattolica. Divenuto Papa Pio IX, nel 1846, lo considerò una guida per la rinascita della nazione, secondo le teorie giobertiane. L’anno seguente si arruolò, giovanissimo, nella guardia civica. Le sue idee non gli permettevano di accettare i principi della Repubblica Romana, eppure partecipò attivamente alla sua difesa come artigliere, distinguendosi soprattutto nei combattimenti del 3 giugno.

Entrati i francesi a Roma, fu accusato di aver partecipato a un tumulto il 15 luglio del 1849 e incarcerato insieme con il fratello Alessandro. Il padre dopo qualche giorno li fece liberare entrambi grazie alle sue conoscenze e ai suoi mezzi economici. Augusto si dedicò con tutte le sue energie al laboratorio di oreficeria, di cui nel 1851 divenne direttore amministrativo.

Sposò la figlia di Filippo Farina, ministro del governo pontificio, suscitando un certo scalpore nell’ambiente liberale romano.

Si riaccostò alla politica dopo la dimissione del fratello dal manicomio criminale, aderendo però alle idee monarchiche. Si opponeva, seppur larvatamente, al potere temporale del Pontefice, che riteneva responsabile dei problemi economici dello stato.

Dopo la breccia di Porta Pia fece parte di una Giunta provvisoria del governo italiano, all’interno della quale si oppose all’acceso anticlericalismo di alcuni, pur nella convinzione della necessità di una netta separazione tra Stato e Chiesa.

Fece parte della delegazione incaricata di consegnare a Vittorio Emanuele II i risultati del plebiscito del 2 ottobre 1870, quindi divenne direttore del Museo Capitolino.

Dal 1883 al 1890 e dal 1895 al 1907 fece parte del consiglio comunale di Roma, rimanendo in ombra a causa del rigore del suo comportamento che lo faceva estraniare da quelli che riteneva giochi di potere.

Nel 1903 fu nominato cavaliere del lavoro, mentre però era costretto a ridurre la sua attività di orafo a causa di una contrazione del volume di affari. Morì nella sua amata città il 23 gennaio del 1914, nel palazzo di piazza Fontana di Trevi. Venne seppellito al Pincetto vecchio del Verano, in quella tomba di famiglia che si era fatto costruire già dal 1865, una cappella rotonda adorna di antefisse antiche e nella quale avrebbe voluto fossero inumati tutti i collaboratori del suo laboratorio di oreficeria.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Alessandro Castellani

Alessandro Castellani era nato a Roma il 2 febbraio del 1823 dal famoso orafo e antiquario Fortunato Pio e da Carolina Baccani. All’età di tredici anni aveva perso la mano sinistra in un incidente di caccia, ma questo non gli impedì di dedicarsi, insieme con il fratello minore Augusto, all'arte paterna, applicandosi alla preparazione dei disegni. All’amore per il lavoro aggiunse quello per la politica e fin dal 1847, seguendo gli ideali repubblicani e democratici, fece parte del progressista Circolo popolare. Durante la breve esperienza della Repubblica romana partecipò a una commissione per la scelta degli impiegati governativi.

Restaurato il governo pontificio, il 16 luglio del 1849 Alessandro fu arrestato insieme con il fratello Augusto e rilasciato dopo pochi giorni, grazie a una forte somma sborsata dal padre. Rimase comunque in contatto con l'ambiente repubblicano dei mazziniani. Nell'agosto del 1853, Alessandro fu tra i numerosi arrestati con l’accusa di cospirazione, ma nel gennaio 1854 – nelle carceri del San Michele – diede segni di un grave squilibrio mentale. Rimase in manicomio fino al 1856, quando venne affidato alla responsabilità dei familiari.

Ricominciò a lavorare nell'azienda di famiglia. Ma le autorità papali lo facevano controllare dalla polizia e quando ritennero che fosse guarito gli imposero di scegliere se tornare in prigione o andare in esilio. Così, nel giugno del 1860 Alessandro si trasferì a Parigi, dove aprì, ai Champs Elysées, una succursale dell’oreficeria paterna che riscosse un notevole successo. Nel 1862 iniziò un proficuo commercio di oggetti d'arte che lo rese famoso. In quello stesso anno si stabili a Napoli dove fondò una scuola di oreficeria, occupandosi anche di arte ceramica.

Napoleone III riuscì a farlo graziare dall’esilio, ma Alessandro non volle tornare nella sua città, preferendo cospirare da lontano. Rientrò a Roma solo dopo la breccia di Porta Pia, nel 1870. Fu anche proposto dai democratici come candidato alle elezioni generali per la Camera, ma con la sua ferma rinuncia suscitò grande clamore.

Ancora nel 1870 fece parte della Commissione per la tutela dei monumenti a Roma, quindi, nel 1872, fu a capo della commissione promotrice del comizio al Colosseo per sostenere l'introduzione del suffragio universale.

Fu lui ad elaborare il progetto, che tanto piaceva a Garibaldi, di deviare il corso del Tevere per liberare la città dal pericolo di inondazioni e per ritrovare i reperti archeologici che giacevano sul letto del fiume. Nel marzo del 1879 fu eletto presidente dell'Associazione repubblicana dei diritti dell'uomo.

Colpito da gravi attacchi d’asma, Alessandro morì nella villa Vecchioni a Portici il 9 giugno 1883. Secondo la sua volontà, la salma fu portata a Roma, cremata e seppellita in terra libera, senza immagini né lampade.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Gaetano  Tognetti

Il 22 ottobre 1867 una terribile esplosione risuonò per le vie e le piazze di Roma: una mina aveva fatto saltare in aria una parte della caserma Serristori, uccidendo 23 zuavi pontifici e 5 ignari cittadini che si trovavano a passare in quella parte di Borgo. A seguito di una delazione, furono accusati dell’attentato due giovani muratori: Giuseppe Monti, di Fermo, trentatreenne, sposato e con un figlio piccolo, e Gaetano Tognetti, un romano di appena ventitré anni, che con il suo lavoro manteneva i genitori e quattro fratelli più piccoli. Nel processo che seguì, il giudice inquirente calcò la mano sul fatto che i due imputati erano poverissimi e vivevano delle loro braccia meschinamente, quindi avevano un movente per abbracciare il partito del disordine. Condannati a morte, i due patrioti rimasero in carcere 13 mesi, quindi, il 24 novembre del 1868, all’alba, vennero portati su un cocchio chiuso in piazza dei Cerchi, presso il Velabro, dove era stato montato il palco con la ghigliottina. Mastro Titta, il famigerato boia di Roma, era ormai in pensione da qualche anno. Lo sostituiva un suo aiutante, Antonio Balducci, che indossava – come di consueto – una veste scarlatta. Ad assistere allo spettacolo un folto gruppo di zuavi, ma non il popolo, tenuto lontano. Monti, che volle salire sul palco scalzo, fu giustiziato alle 7. Stessa sorte toccò a Tognetti, appena due minuti dopo. Il boia raccolse le due teste e, tenendole per i capelli, le mostrò agli zuavi, che fecero rullare i loro tamburi: questa fu l’ultima esecuzione dello Stato Pontificio, a meno di due anni dalla breccia i Porta Pia. A Monti e Tognetti Giosuè Carducci dedicò una vibrante lirica piena di rancore per Pio IX, al quale diceva, tra l’altro: "Ma tu co ’l pugno di peccati onusto / Calchi a terra quei capi, empio signor, / E sotto al sangue del paterno busto / De le tenere vite affoghi il fior. / Tu su gli occhi de i miseri parenti / (E son tremuli vegli al par di te) / Scavi le fosse a i figli ancor viventi. / Chierico sanguinoso e imbelle re".

Il monumento funebre di Gaetano Tognetti, voluto dalla famiglia del giovane dopo il 1870, si trova al cimitero del Verano, nel riquadro 12 del Pincetto vecchio. E’ un sobrio cippo su base ottagonale. Sulla fronte è l’iscrizione, mentre sugli altri tre lati è incisa una corona di foglie di quercia. Sopra al cippo è sistemato un dado che termina con delle fiamme, circondato da una corona bronzea di foglie d’edera e di ulivo.

La caserma Serristori c’è ancora, nonostante gli sventramenti che in epoca fascista interessarono la cosiddetta "spina di Borgo". Il palazzo tardo rinascimentale - costruito a partire dal 1565 da Averardo Serristori (ambasciatore di Cosimo Medici presso Pio IV) e in seguito acquistato dalla Camera Apostolica – nel 1870 fu occupata dalle truppe italiane. Con i Patti Lateranensi tornò alla Santa Sede e dal 1930, dopo la sistemazione di Alberto Calza Bini, è sede della scuola pontificia Pio IX.

di Cinzia Dal Maso

 

Il Risorgimento dei romani

Lorenzo Maderazzi

Felice Venosta, nella sua biografia di Ciceruacchio, riferisce che nel 1849, durante la difesa della Repubblica Romana, il tribuno fu, con Enrico Cernuschi, l’anima della Commissione delle barricate. Spesso lavorò alla fortificazione delle porte, con l’aiuto di "un tale Materassi, macchinista del teatro Apollo". Si tratta di Lorenzo Maderazzi, nato alla fino del ‘700 e indicato nel Mercurio di Roma del 1843 come "Maresciallo del corpo dei vigili, macchinista teatrale", con abitazione in via della Mola di San Giovanni de’ Fiorentini 19.

Il suo lavoro era talmente apprezzato che aveva eseguito il palcoscenico e tutto il meccanismo per il teatro municipale di Alessandria.

L’8 settembre del 1846 aveva apprestato insieme con Agostino Tibaldi i legnami e le armature per un arco trionfale temporaneo in onore di Pio IX che era stato posto allo sbocco di via del Corso su piazza del Popolo. L’arco era stato disegnato da Felice Cicconetti e l’impresa era diretta da Giuseppe Antonini, Ciceruacchio e Luigi Paolelli.

Nel 1848 aveva ottenuto da monsignor Savelli, insieme con altri capi del popolo, Ciceruacchio, Piccioni, Bezzi, Filippo Meucci, Vinciguerra, il permesso di istituire il "Circolo popolare". Felice Venosta, che lo definisce un "figlio del lavoro", racconta una sua prodezza: era riuscito con grande facilità, per mezzo di una sola corda, "avvolgendola attorno al sasso e gradatamente formandosene un posapiede", a salire sulla cima dell’obelisco di piazza del Popolo, per collocare sulla croce il berretto rosso.

Durante l’assedio francese di Roma, Maderazzi, insieme con Ruggeri e Galiani, aveva requisito un’ingente quantitativo di legname a un certo Annibaldi, per munire le barricate, senza però un mandato scritto del triumvirato, allegando semplicemente un ordine verbale di Garibaldi, che peraltro non era il comandante supremo delle operazioni belliche. Nel 1852 l’Annibaldi si rivolse al Tribunale della Rota per ottenere un risarcimento direttamente dal Maderazzi e dai suoi compagni, sostenendo che la mercanzia era stata tolta dal magazzino "senza neppure rilasciargli una carta la quale dicesse quanto, da chi, in qual giorno, per quale comando, per qual prezzo e per quale uso venisse asportala".

La difesa dei "rei convenuti" era affidala all’avvocato Calatili, che provò come il legname fosse stato portato effettivamente in vari luoghi della città dove si costruivano le barricate. Il legale sostenne inoltre che l’ordine scritto dei triumviri non era necessario, poiché "ordinata la difesa di una città, s’intendeva data ai comandanti la facoltà di richiedere quello che era utile, o necessario". Inoltre, "ognuno dei comandanti, a meno che le sue facoltà non siano state espressamente ristrette, deve fare tutto quello che tende a terminare presto la guerra, ed a trionfare, né contrae responsabilità alcuna verso i privati chi obbedisce a tali comandi".

L’istanza dell’Annibaldi fu rigettata.

di Cinzia Dal Maso

 

Il Risorgimento dei Romani

Alessandro Calandrelli, eroe del trenta aprile

Alessandro Calandrelli era nato a Roma l’8 ottobre 1805 da Giovanni, incisore di pietre preziose, e Maria Borelli. Entrò giovanissimo nell’artiglieria pontificia e diventò cadetto prima ancora di compiere 13 anni, primo atto di una brillante carriera militare.

Nel 1836 scrisse una Memoria sull’artiglieria pontificia e l’anno seguente fu nominato professore presso la Scuola dei cadetti d’artiglieria. Mentre era di stanza a Civitavecchia rivelò anche le sue doti di studioso, con una Memoria sul castello di Santa Severa e la decifrazione e la raccolta di antiche iscrizioni. Nel 1842 rilevò la pianta della piazza fortificata di Civitavecchia e studiò le possibilità di difesa della maremma toscana. Dopo il 1847 ottenne una medaglia d’oro di benemerenza per il Regolamento del vestiario della Guardia civica.

Nel novembre del 1848, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi e la fuga di Pio IX, Alessandro, ormai capitano, aderì al governo provvisorio, diventando ben presto maggiore. Nel gennaio dell’anno seguente venne eletto deputato dell’Assemblea costituente. Proclamata la Repubblica Romana, ne fu prima sostituto del ministro della Guerra e della Marina, quindi ministro interno. La sua preparazione e la sua esperienza lo portarono a studiare una serie di provvedimenti per rendere più efficiente un esercito scarsamente preparato dal punto di vista militare, composto da gruppi volontari. Secondo il Calandrelli la legione Garibaldi aveva una crescita incontrollata e vi si inserivano elementi indisciplinati in grado di provocare disordini di vario tipo. La sua proposta all’Assemblea di aumentare gli effettivi dell’esercito attraverso la coscrizione obbligatoria degli uomini dai 18 ai 36 anni fu respinta e la polemica che ne seguì provocò la sua messa in disparte dalla vita politica repubblicana.

Durante l’assedio francese della città, il suo contributo fu prezioso e nell’epica battaglia del 30 aprile, nella quale gli uomini del generale Oudinot furono sconfitti e respinti, si guadagnò una medaglia d’oro al valor militare. Nei giorni di euforia che seguirono, il cantastorie cieco Tarantoni girava per le strade di Trastevere con la sua chitarra cantando una semplice canzoncina i cui versi suonavano così: "Ciavemo Garibbardi / Ciavemo Calandrella/ sti boja de francesi/ nun so potuti entrà/ l’emo respinti indietro / nun ponno aritornà".

I francesi, però, sarebbero tornati, eccome, più forti e agguerriti di prima, tradendo la tregua di Lesseps. Calandrelli, che fin dal 17 maggio era stato nominato, con il grado di colonnello, direttore generale delle fortificazioni, si distinse nella battaglia del 22 giugno, dirigendo l’artiglieria per impedire che gli assalitori rafforzassero le posizioni conquistate il giorno precedente. Ma le sorti della Repubblica erano ormai segnate. Il 1° luglio il triumvirato composto da Mazzini, Saffi e Armellini si sciolse e se ne costituì uno nuovo, di cui facevano parte, oltre ad Alessandro Calandrelli, Livio Mariani e Aurelio Saliceti.

Una volta ristabilito il governo pontificio, Alessandro subì gravissime accuse di furto, incettazione e concussione. Nel processo che ne seguì, nonostante si proclamasse innocente, fu condannato a numerosi anni per furto e a morte per alto tradimento. Nell’agosto del 1851 Pio IX mutò tutte le sue pene in 20 anni di carcere ad Ancona. Da qui, a settembre, scriveva alla sorella: "Oggi son povero, abbandonato e non possedo in mia tasca che 36 baiocchi...ecco il frutto dei miei furti..."

Persino il re di Prussia Federico Guglielmo IV si adoperò per il rilascio del Calandrelli, che tuttavia dovette rimanere in carcere per due anni. Finalmente il 15 giugno del 1853 il Pontefice gli commutò la pena in esilio perpetuo, permettendogli di riunirsi al padre e al fratello Ludovico che si trovavano a Berlino. Qui Alessandro si guadagnò da vivere dando lezioni di italiano. Tra i suoi allievi il naturalista e geografo Alexander von Humbold e Ferdinand Lassalle, che negli anni a seguire sarebbe diventato leader del movimento operaio tedesco. Si sposò con Emilia Reineke, che gli diede tre figli.

Solo dopo la breccia di Porta Pia poté tornare a Roma. Era il 2 ottobre del 1870. Divenne Consigliere del Circolo romano e prese parte attiva alla vita politica. Trovò un modesto ma dignitoso impiego come ispettore edilizio del Comune. Nel 1871 iniziò anche a collaborare saltuariamente con il quotidiano "Il Tribuno".

Si iscrisse alla Società dei reduci delle patrie battaglie, fece parte della Commissione per le onoranze Mazzini e di un’altra incaricata di individuare i nomi dei Romani caduti durante il Risorgimento. Nel 1884 si ritirò ad Albano, dove morì il 7 febbraio 1888.

di Cinzia Dal Maso

 

Il Risorgimento  dei romani

Giovanni Cherubini

Annibale Lucatelli nel suo prezioso volume "Carità di patria - Ai fratelli dimenticati - Ricordo" traccia un toccante profilo di un eroico romano, Giovanni Cherubini, cui il padre, uomo di grande cultura, aveva trasmesso l’amore per la patria e la libertà. Giovanni studiava pittura con buoni risultati presso Tommaso Minardi, professore all’accademia di San Luca, quando decise di partire per la campagna del Veneto. Combatté a Vicenza nel 1848, rimanendo gravemente ferito dalla mitraglia. Riuscì a guarire, potendo così partecipare, l’anno seguente, alla difesa della Repubblica Romana, della cui assemblea il padre era stato eletto deputato.

Ristabilitosi il governo papale, una sera si imbatté per strada in un folto gruppo di persone che applaudiva i francesi. Giovanni fu colto dall’ira e minacciò con un bastone uno dei manifestanti, il curato della Madonna dei Monti, poi, sapendo che il suo gesto non sarebbe rimasto senza conseguenze, fuggì fuori dai confini dello stato. Il tribunale lo condannò in contumacia a cinque anni di carcere. Poiché la polizia pontificia, non riuscendo a mettere le mani su di lui, aveva arrestato il padre con l’accusa di complicità nel sacrilego gesto, Giovanni si vide costretto a tornare a Roma e a scontare la sua pena per intero. Una volta liberato ebbe una parte attiva nelle sommosse del 1859, guadagnandosi altri due arresti. Nel 1865 fu di nuovo costretto a emigrare e si trasferì a Terni, dove rimase finché l’appello di Garibaldi non lo spinse a combattere di nuovo. Nel 1867 partecipò alla campagna dell’Agro romano per la liberazione di Roma. A Monterotondo si spinse fin sotto le porte della città per incendiarle, incurante dei proiettili nemici. A Mentana, racconta Lucatelli, "esaurì le munizioni dopo brevissimo tempo, e sotto una pioggia di palle sottrasse cartucce dalla sacca dei suoi compagni caduti e seguitò a sparare, ma quando non vi fu più né tempo né mezzo di continuare, afferrò la carabina per la canna e menò colpi violentissimi da tutte le parti come una belva inferocita, mentre la faccia gli grondava sangue e le vesti erano tutte lacere". Anche il fucile si ruppe, allora combatté con la daga, poi, nel corpo a corpo, con pugni e morsi. All’altezza di villa Santucci una scarica di mitraglia gli spezzò un ginocchio e lo fece cadere. Gli zuavi gli furono addosso, lo crivellarono di ferite e gli cavarono gli occhi con la baionetta, "sino a che quel forte non spirò ruggendo come un leone". Lasciava la moglie e un figlio, che fu educato nel collegio militare di Torino a spese di Vittorio Emanuele II.

Di Giovanni Cherubini si è parlato a Nuova Spazio Radio (88.100 MHz), a "Questa è Roma", il programma ideato e condotto da Maria Pia Partisani, in studio con Livia Ventimiglia il martedì dalle 14 alle 15 e in replica il sabato dalle 10 alle 11.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Annibale Lucatelli

Annibale Lucatelli era il fratello di Cesare, giustiziato il 21 settembre del 1861 a piazza Bocca della Verità. Anch’egli fervente patriota, era nato a Roma il 5 novembre 1827. Nel 1848 partì volontario per la prima guerra d’Indipendenza e fu ferito nella difesa di Treviso. L’anno seguente si batté per la Repubblica Romana e dopo la caduta di quest’ultima fuggì a Genova. Nel 1853 tornò clandestinamente a Roma per preparare un moto rivoluzionario e fu arrestato. Durante il processo davanti alla Sacra Consulta che ne seguì, tentò invano di difendersi sostenendo che la sua presenza a Roma era dovuta a motivi di cuore. Lui e Augusta Castellani, infatti, sarebbero stati innamorati. Dopo la partenza di Annibale, la giovane si sarebbe ammalata per il dolore e sua madre Carolina avrebbe finalmente dato il suo consenso al matrimonio. Non venne creduto e la condanna fu pesantissima: il carcere a vita, in seguito commutato in 20 anni di prigione. Una violenta rivolta nel carcere di Paliano gli valse una nuova condanna all’ergastolo. Fu liberato nel 1869 e mandato in esilio. Poté tornare a Roma solo dopo il 20 settembre del 1870, riprendere la sua arte di mosaicista e formarsi una famiglia. Nel 1871 il principe Umberto gli donò duemila lire, una sorta di risarcimento delle tante sofferenze patite per il suo patriottismo.

Nel 1889 scrisse un volume in collaborazione con Leopoldo Micucci, "Carità di Patria - Ai fratelli dimenticati – Ricordo". Così si legge nella prefazione: "Chiuso per sedici anni nelle prigioni pontificie, ho dovuto essere spettatore di atroci patimenti e immani sventure; e mi sono convinto che la privazione della libertà sia il massimo dei sacrifizi che imponga all’uomo la carità della patria. Molti atti d’eroismo compiuti fra quelle mura spaventevoli la storia ha taciuto; eppure ve ne furono di tali che ogni cuore gentile non può ricordare senza un profondo dolore e senza un atto di disprezzo contro chi calpestava nel nome di Dio i più soavi sentimenti dell’uomo, l’amore fraterno e la patria. A coloro che appena oggi si rammentano è rivolto questo libro, e alla loro memoria consacrato. A me pareva ingiusto partirmi da questo mondo senza lasciare una notizia di loro, ed è perciò che mi sono prefisso di scoprire le loro tombe, e consegnare al cuore dei giovani tanto sacri ricordi".

Annibale morì nella sua città il 27 giugno del 1909. Suo figlio Luigi (1877 – 1915) scrisse romanzi, novelle, articoli di archeologia e resoconti di guerra. Divenne famoso negli ultimi anni della sua breve vita pubblicando "pubbliche proteste" sul giornale satirico "Il Travaso delle idee", con lo pseudonimo di Oronzo E. Marginati.

di Cinzia Dal Maso

 

Il Risorgimento dei romani

Un anniversario quasi dimenticato

In questo anno di celebrazioni patriottiche più o meno sentite, ma sempre molto ostentate, quanti saranno quelli che oggi si ricorderanno di portare un fiore sulla tomba di Cesare Lucatelli, nel centocinquantesimo anniversario della sua decapitazione? La mattina del 21 settembre del 1861 in piazza Bocca della Verità Giovanni Battista Bugatti, meglio conosciuto come Mastro Titta, eseguì l’atto finale di un processo che aveva fatto discutere l’Italia intera. Scriveva il fratello Annibale: "l’indignazione per tanta barbarie fu generale, e non vi fu animo pietoso che con le parole o con gli scritti non facesse omaggio alla memoria del martire... Nel 1870 poi, alcuni giorni dopo la liberazione di Roma, a cura dei patrioti romani, fu eretto in campo Verano un modesto monumento alla memoria di Lucatelli. L’opera scultoria dei fratelli Saraceni, riuscì un capo lavoro. Semplice, ma spontaneo n’è il concetto, e profondamente vero. Se non vi fosse incisa parola alcuna, quel marmo da sé basterebbe a narrare un sacrifizio, una vendetta, un eroismo, una storia insomma che rabbrividisce ed infiamma ad un tempo". Il monumento ricorda ancora ai rarissimi e spesso distratti visitatori del Pincetto vecchio una storia ormai lontana, eppure per anni è stato meta di un vero pellegrinaggio. Continuava Annibale: "non passa giorno che non vi vegga qualche pietoso ginocchioni a piè del monumento, e che non si trovi scritto con la matita sul marmo qualche parola di ammirazione o di encomio alla memoria del patriota. Fra l’altre vi fu scritta una volta un’aurea sentenza tolta da una canzone popolare romana: Chi per la patria muore, non muore mai. Un bel morir tutta la vita onora".

Purtroppo la tomba giace oggi nel più totale abbandono, sporca, con la pietra di chiusura spezzata. Persino il modesto vaso di terracotta per i fiori è rotto.

di Cinzia Dal Maso

 

IL RISORGIMENTO DEI ROMANI

Il patriota romano Cesare Lucatelli

Cesare Lucatelli era nato a Roma il 20 aprile 1823. Il padre Antonio, brigadiere dei dragoni pontifici e capo dei domatori di cavalli, ossia caposcozzone, appassionato di storia romana, aveva chiamato i suoi primi figli Cesare, Augusto e Annibale e aveva trasmesso loro l’amore per la libertà e l’indipendenza nazionale. Nel marzo del 1848 Cesare e Annibale si arruolarono volontari nel battaglione universitario partecipando alla I guerra d’Indipendenza. Una volta tornati a Roma, furono tra i difensori della Repubblica Romana e in seguito militarono nell’Associazione nazionale mazziniana.

Cesare, nonostante avesse studiato l’arte del mosaico e dell’incisione dei cammei, si mise a fare l’oste. Il suo carattere impulsivo iniziò a procurargli seri problemi. Nel 1851 il Consiglio di guerra francese lo condannò a quattro mesi di prigione per una rissa scoppiata con alcuni soldati che avevano mangiato nella sua osteria senza pagare il conto.

Nell’agosto del 1853 fu coinvolto, insieme con Annibale, in un tentativo di insurrezione a Roma. Scoperta la congiura, i due fratelli dovettero affrontare un complicato processo, durante il quale si impegnarono a non compromettere gli amici. Cesare fu condannato a 10 anni di reclusione e Annibale all’ergastolo, pene in seguito fortemente ridotte. Alla fine del 1856 Cesare poteva tornare in libertà e riprendere l’attività di oste, che però dovette presto abbandonare a seguito del rincaro del vino.

Nel 1860 lavorava come facchino per la ferrovia Roma-Civitavecchia, ma una lite con un collega gli costò un altro mese di galera. Continuava il suo impegno politico, partecipando a manifestazioni contro il governo pontificio, fino a quella tragica del 29 giugno 1861. Durante la festa per i santi patroni di Roma, all’improvviso, su un edificio in costruzione a piazza San Carlo al Corso furono illuminati due grandi quadri trasparenti raffiguranti Vittorio Emanuele II e Napoleone III, mentre dalle basi delle colonne della chiesa vennero incendiati dei bengala bianchi, rossi e verdi. Nella confusione che ne seguì, dodici gendarmi provenienti da via della Croce cominciarono a caricare la folla, imitati da altri gendarmi di guardia al Corso e coadiuvati da quaranta uomini del tenete Naselli, che menavano colpi di sciabola alla cieca. Solo l’intervento della gendarmeria francese evitò una strage. Un tale Francesco Velluti, capopattuglia dei gendarmi pontifici, fu raggiunto sotto palazzo Ruspoli da una pugnalata alla coscia sinistra e da una al basso ventre. Il Lucatelli, ferito alla testa e all’addome dai gendarmi pontifici, fu arrestato come presunto aggressore. Intanto il Velluti, ricoverato al San Giacomo, cessava di vivere.

Al processo tutto fu contro Cesare: 9 testimoni a carico, nessuno a discarico. Il difensore d’ufficio tentò senza successo di sostenere una rissa tra più persone e l’ubriachezza del suo assistito. Fu ritenuta l’arma del delitto un coltello trovato in terra al Corso, la cui lama, però, non corrispondeva con la natura delle ferite sul corpo del Velluti. Si accusò il Lucatelli di essersi vestito con i colori della bandiera italiana,ma egli rispose di avere un unico paio di pantaloni d’estate, bianchi. La camicia, comperata usata, era a strisce bianche e rosso cupo. Quanto alla fascia verde che avrebbe portato alla vita, non era altro che la cinta della divisa dei facchini, con tre fibbie sulla pancia e di colore nero, che i ripetuti lavaggi avevano reso verdastra.

La sentenza fu unanime: condanna a morte per omicidio "con animo deliberato, e per ispirito di parte". Vani tutti i tentativi di ottenere la grazia. Inutili furono gli sforzi per salvarlo. L’esule pontificio Giacomo Castrucci tentò perfino di autoaccusarsi del delitto davanti al procuratore di Firenze.

Solo la sera prima dell’esecuzione, alle 11, la sentenza fu comunicata al condannato, che l’accolse con incredibile fermezza. Durante la notte i confratelli di San Giovanni Decollato tentarono in ogni modo di far confessare e pentire Cesare, che da parte sua chiese, senza ottenerlo, di poter rivedere il fratello Annibale, recluso al San Michele.

La mattina del 21 settembre fu portato a piazza Bocca della Verità, dove era stato innalzato il patibolo. Prima di salirvi, strinse al petto un crocifisso e pregò, quindi si avviò con fermezza, dicendo ai gendarmi: "guardate come va a morire il Lucatelli", acclamando l’Italia e augurandole l’antica gloria. Si rivolse al popolo protestando la sua innocenza, finché i tamburi lo interruppero. Il carnefice lo obbligò a mettere sul ceppo la testa, che dopo poco sarebbe stata mostrata ai presenti.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Le sorelle Castellani

Dal diario di Anna Galletti de Cadilhac sappiamo che durante la difesa della Repubblica Romana, tra le donne che assistevano i feriti presso l’ospizio della Trinità dei Pellegrini, c’erano anche tre belle sorelle romane, Elisa, Francesca e Augusta Castellani.

Appartenevano alla nota famiglia di orafi, secondo la testimonianza di Annibale Lucatelli, "una delle più benefiche della nostra città pel sacrificio continuo di libertà e sostanze che sopportò coraggiosamente". La loro casa, nel palazzo Costa a San Marcello, veniva perquisita praticamente ogni settimana.

Il 10 novembre 1850, ottavario della solennità dei defunti, la signora Teresa Narducci, madre del giovane studente Paolo che era caduto nella battaglia del 30 aprile del 1849, aveva invitato le sorelle Castellani a recarsi con lei nella chiesa di S. Ignazio per assistere alla cerimonia e pregare per coloro che erano morti difendendo la patria. "Giunte colà divotamente s’inginocchiarono – racconta Lucatelli - e allorché i sacerdoti benedicevano il catafalco che sorgeva nel mezzo della chiesa, si levaroro, e gettati dei fiori sulla coltre, esclamarono sommessamente: "Pace alle anime dei caduti per la patria!" Quasi tutti i presenti ripeterono: "Pace, pace.""

Questo fatto innocente non mancò di avere conseguenze. La notte seguente parecchi gendarmi bussarono alle porte delle famiglie Narducci e Castellani portando in carcere a Montecitorio le tre sorelle e la signora Teresa. "Era stato un atto così pietoso che avrebbe placato l’ira del più crudele degli uomini. Quella povera madre credeva di trovare un sollievo al suo immenso dolore, gettando alcuni fiori sulla tomba del figlio e invocando dal Signore la pace per lui; e le era capitato invece uno spaventevole oltraggio". Il fratello delle ragazze, Giovanni Castellani, si recò dal generale francese De Courcetez e gli narrò l’accaduto. L’ufficiale ne rimase sconvolto e si adoperò in ogni modo per il ritorno a casa delle donne, che avvenne dopo due giorni. Le poverette, però, dovettero rimanere agli arresti domiciliari per altri quattro mesi. Non poterono uscire nemmeno quando la mamma delle Castellani chiese un permesso speciale al parroco di San Marcello affinché le figlie si potessero recare in chiesa per prendere l’Eucarestia. Il religioso si limitò a mandare l’ostia consacrata a casa.

Tra il Lucatelli e una delle giovani ci doveva essere del tenero: nei processi segreti della Sacra Consulta di Roma si legge che Annibale tentava di giustificare il suo ritorno a Roma nel 1853 con il desiderio di sposarsi con Augusta Castellani. La giovane, addolorata per la lontananza dell’uomo, si sarebbe ammalata e sua madre Carolina avrebbe finalmente dato il suo consenso al matrimonio.

di Cinzia Dal Maso

 

 

IL RISORGIMENTO DEI ROMANI

Filippo De Cupis

Durante tutta l’infanzia e la prima giovinezza, l’interesse di Adriano De Cupis era calamitato da un cassetto del comò chiuso, di cui nessuno, in casa, gli voleva rivelare il contenuto. Solo dopo la morte del padre, Adriano aveva potuto aprire quello scrigno, che non conteneva monete o gioielli, ma qualcosa di infinitamente più prezioso: carte ingiallite dal tempo, foto, lettere e documenti del bisnonno garibaldino. Adriano ha sentito il dovere di studiare e riordinare quelle memorie e oggi "Il cassetto chiuso" è diventato un libro, denso di testimonianze e di immagini.

Filippo De Cupis era nato a Roma, ma a 20 anni appena si era trasferito in Sabina per gestire un feudo del principe Marcantonio Borghese, andando ad abitare a Poggio Moiano con la moglie Giulia. Lo zio Camillo, intimo amico di Melchiorre Cartoni, gli aveva instillato fin dall’infanzia valori come patria e libertà. Il libro si sofferma sull’incontro di Filippo con i figli di Garibaldi, Menotti e Ricciotti, e sulla sua partenza nel 1866 - insieme con il fratello Cesare De Cupis, il noto studioso della Campagna Romana - come volontario nella terza guerra d’Indipendenza, dove si guadagnò i gradi di capitano.

Nell’agosto del 1867 Filippo venne convocato a Orvieto da Giuseppe Garibaldi, che gli affidò il delicato incarico di gestire le risorse economiche per far fronte alle necessità di una parte delle truppe. Seguirono le sanguinose battaglie di Monterotondo e Mentana. In quest’ultima località le camicie rosse videro svanire le proprie speranze di vittoria davanti ai nuovi fucili a retrocarica dei francesi, gli chassepots.

Nel 1869 nasceva Luigi, il primo figlio di Giulia e Filippo. La festa per il lieto evento fu organizzata dal fraterno amico di Filippo, Leopoldo Brigazzi.

Quando la vita sembrava sorridere alla famiglia, che si andava allargando con la nascita di tre bambine e di un altro maschio, il destino volle giocare un tiro crudele. Filippo, con l’ingenuità dei galantuomini, si lasciò convincere da un banchiere, un tale Giuseppe Nobili, ad affidargli una parte consistente del patrimonio ereditato dal padre, per giocarlo in borsa. Fu un disastro. Non solo il Natali gli prosciugò il conto, ma la banca gli ipotecò ogni proprietà. Filippo cominciò a cercare l’imbroglione in lungo e in largo per la Penisola. Alla fine lo trovò a Torino, ma solo per capire che da lui non avrebbe potuto ottenere nulla. Completamente sul lastrico, trovò un lavoro come fuochista su un vapore diretto a San Paolo del Brasile, dove peraltro sembra non sia mai arrivato. Da allora la famiglia non seppe più niente di lui.

di Cinzia Dal Maso

 

Il Risorgimento dei romani

Mattia Montecchi

Su un edificio di via Frattina, a destra del civico 12, proprio sopra le finestre del primo piano, è murata una lapide in cui si legge: "In questa casa dimorò / Mattia Montecchi romano / triumviro della Repubblica nel (milleottocentoquarantanove) / Cittadino integerrimo / tutto diede alla patria / nulla chiese per sé".

Mattia Montecchi era nato a Roma nel 1815 e fu carbonaro fino dal 1834, partecipando a varie congiure contro il governo pontificio. Nel 1844 venne arrestato per cospirazione e condannato al carcere a vita. Fu chiuso a Castel Sant’Angelo e poi nel forte di Civita Castellana, dove ebbe come compagno di prigionia Felice Orsini. Nel 1846, dopo l’elezione di Pio IX, poté godere dell’amnistia. Nel 1848 partecipò alla campagna del Veneto. Ebbe una parte di primo piano nella Repubblica romana, come deputato alla Costituente e ministro. Con la restaurazione del governo pontificio, fu costretto all’esilio e a Lugano fondò, insieme con Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi, una società che si proponeva di pubblicare e diffondere in Italia giornali, libri e opuscoli di idee rivoluzionarie e repubblicane. Collaborò anche al giornale clandestino "L’Italia del Popolo".

Dopo l’unificazione del Paese, tra il 1862 e il 1867, fu deputato del Regno d’Italia.

Il 22 settembre del 1870 fu membro della Giunta di governo di Roma, fu subito sciolta dal generale Cadorna.

Ecco come Edmondo De Amicis descriveva, nel suo "Roma Capitale", il discorso tenuto dal Montecchi nei giorni che seguirono la breccia di Porta Pia: "Il vecchio patriota romano, accompagnato dagli amici, avvolto e nascosto quasi dalle bandiere, sale sul pulpito a capo scoperto, e preso appena fiato comincia con voce commossa: - Popolo romano, rivendicato alla libertà e restituito per sempre alla comune patria...

S’interrompe un istante, e poi con irresistibile slancio - ...Io ti saluto!

L’ultima sua parola muore in un singhiozzo; egli si copre gli occhi col fazzoletto e ricade sulla seggiola. La folla manda un grido d’entusiasmo, tendendo le braccia e agitando le bandiere.

- Silenzio! Silenzio!

Il Montecchi ricomincia a parlare, a voce bassa, interrompendosi tratto tratto. La folla ondeggiando e rimescolandosi, si stringe intorno al pulpito. Le parole dell’oratore non giungono fino a me. Mi faccio innanzi per intendere qualcosa.

Il potere temporale al Papa, - egli esclama, - è caduto!"

Montecchi morì a Londra nel 1871. Il suo busto sul Gianicolo, del 1898, è opera di Emilio Dies.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Il generale Pietro Roselli, comandante supremo

Pietro Roselli era nato a Roma nel 1808. Frequentò l’accademia militare diventando tenente del genio dell’esercito pontificio. Partecipò alla prima guerra di indipendenza in Veneto alla testa di un battaglione di volontari, prima come capitano e poi come maggiore. Nell’esercito della Repubblica Romana fu promosso colonnello e come tale intraprese una campagna contro il brigantaggio nelle Marche. Nel maggio del 1849 venne richiamato a Roma e nominato – per volere di Mazzini - generale di divisione, con il comando supremo delle truppe. Così Roselli scavalcava di fatto Garibaldi, con la giustificazione che, essendo romano e di sentimenti moderati, nonché ex ufficiale pontificio, sarebbe stato meglio accettato sia dai soldati della Repubblica che all’estero.

Caduta la Repubblica, andò in esilio a Genova, ma nel 1859 era di nuovo a capo di una divisione di volontari. Finalmente nel 1860 divenne tenente generale dell’esercito italiano, con il quale partecipò alla conquista di Ancona, di cui fu anche comandante di piazza. Roselli morì nel 1885 nella città marchigiana, dove fu sepolto, per sua espressa volontà.

L’anno seguente il Comune di Roma, per onorare la memoria dell'illustre concittadino, concesse gratuitamente un’area di sepoltura nel cimitero del Verano e partecipò alle spese per la tomba, progettata da Ignazio Roselli Lorenzini, nipote del generale, e realizzata in pietra gabina dallo scultore Adalberto Cencetti (1847 - 1907).

Il busto del Gianicolo è invece opera di Pietro Benedetti (1893).

di Cinzia Dal Maso

 

 

Fu un geniale artista e un fervido eroe del Risorgimento

Il trasteverino Nino Costa, pittore e patriota

Giovanni Costa, detto Nino, era nato a Roma il 15 ottobre 1826, quattordicesimo di quindici figli, da una famiglia trasteverina di industriali della lana, il cui palazzo è ancora visibile nella piazza dove c’è la chiesa di San Francesco a Ripa, con tanto di lapide commemorativa.

Ricevette un’educazione classica, ma rimase affascinato dall’arte medioevale e rinascimentale. Intanto diventava un convinto assertore dell’unità d’Italia. Nel 1847 si iscrisse alla "Giovane Italia" e nel 1848 partecipò come volontario alla prima guerra d’indipendenza.

Fin da questo periodo iniziò a frequentare gli studi di artisti neoclassici e romantici, allontanandosene però presto, per il suo amore per la pittura dal vero.

Quando fu proclamata la Repubblica Romana, aveva appena 23 anni e si trovava in disaccordo con il padre e con i fratelli, per le sue idee liberali, ma soprattutto per la sua volontà di non occuparsi dell’azienda di famiglia, per dedicarsi alla pittura. Ospitò nella sua casa a Garibaldi e fu nominato consigliere municipale.

Al ritorno del Papa, tra il 1850 e il 1851 fu a Napoli, dove forse poté conoscere e apprezzare la scuola di Posillipo. Nel 1853 avvenne la sua "conversione monarchica". Imputava alle concezioni politiche di Mazzini il fallimento della difesa della Repubblica Romana. Si riunì con alcuni amici nel suo studio di via Margutta 33. Furono concordi che tutti i romani liberali si dovevano unire per aiutare il re Vittorio a liberare l’Italia. "Passando ad esaminare quali mezzi fossero più acconci ad ottenere tale scopo, presto ci trovammo d’accordo, pure, nel riconoscere che l’uomo più capace e più accetto per ottenere la conversione dei romani al nostro nuovo indirizzo politico e per ordinare un nuovo partito, per promuoverlo e per sostenerlo fosse l’amico" Giuseppe Checchetelli, che dopo essere stato arrestato nel febbraio del 1850, viveva nel paese di origine dei genitori, Ciciliano. Costa lo convinse a tornare a Roma, e da allora Checchetelli rimase per molti anni alla guida del cosiddetto "partito ragionevole" romano.

Il 1856 segnò inizio del successo artistico di Nino Costa nell’ambiente inglese, con il quadro "Dormono di giorno per pescare di notte", che, replicato in dimensioni maggiori, fu esposto nel 1890 alla New Gallery di Londra. Sempre nel 1856 venne esposto alla Promotrice romana un dei suoi dipinti più celebrati, "Donne che imbarcano legna al porto di Anzio", del 1852.

Nel 1859 tornò a combattere per l'indipendenza italiana e partecipò alla seconda guerra di indipendenza, arruolandosi nel regio esercito piemontese. Alla fine di quell’anno andava a Firenze, dove si trovavano molti altri patrioti, per unirsi a loro. Ma la città era anche un floridissimo centro artistico, dove entrò in contatto, soprattutto al Caffè Michelangelo, con i giovani macchiaioli, che convinse ad abbandonare i soggetti storici per la pittura dal vero.

Viaggiò moltissimo, anche all’estero, con una grande apertura verso tecniche ed idee nuove. Può essere considerato il paesaggista più autorevole fra i ribelli dell’ambiente romano ed era convinto che occorresse dipingere con gli stessi mezzi del vero. Nonostante l’enorme successo ottenuto in paesi come la Francia o l’Inghilterra e a dispetto del suo ruolo di polo catalizzatore dei vari tentativi di rinnovamento artistico della cultura romana, Costa non fu mai compreso e accettato del tutto nella sua città. Si definiva "la persona più impopolare nel mondo artistico romano".

Nel 1870 partecipò alla liberazione di Roma e fu tra i primi ad entrare dalla breccia di porta Pia, insieme con Augusto Valenziani, di cui il pittore così raccontava la morte: "fra le fucilate dei nemici, pure noi avanzavamo a sbalzi, di corsa. I difensori ci sparavano addosso. Mentre sotto il fuoco avanzavamo, mi sono voltato verso Valenziani (che portava gli occhiali) chiedendogli: Le tue lenti si sono rotte? Nello stesso istante una palla nella testa me lo faceva cadere morente, fra le braccia. Io l’ho tratto da parte, l’ho appoggiato a un muro e abbracciandolo gli ho detto: Ringrazia Iddio che ti fa morire così! E mi sono gettato all’assalto".

Da allora partecipò attivamente alla vita politica della città, divenendo anche consigliere comunale. Riprese l’attività artistica, senza perdere il suo carattere ribelle e fondando molti gruppi artistici, come il Golden Club, il Circolo degli Italiani e la Scuola Etrusca.

Prima di morire, il 31 gennaio del 1903 a Marina di Pisa, dettò i suoi ricordi alla figlia, pubblicati postumi nel 1927 con il titolo "Quel che vidi e quel che intesi".

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Angelo Tittoni

Il busto del patriota Angelo Tittoni è collocato nel punto in cui la passeggiata del Gianicolo si biforca, proprio di fronte al monumento di Garibaldi. Lo scultore Ettore Ferrari, che lo ha eseguito nel 1902, ha raffigurato l’eroe con la divisa del battaglione universitario romano, caratterizzata dal cappello alla calabrese ornato di piume. Angelo era nato nel 1820 e apparteneva a quella borghesia romana che aveva raggiunto una solida posizione economica esercitando la professione di "mercante di campagna" senza però godere di alcun privilegio e si era per questo accostata alle idee liberali.

Nel 1848 partecipò alla prima guerra di indipendenza, come colonnello del battaglione universitario romano, di cui fu il primo comandante: si distinse nella battaglia di Cornuda e nella strenua difesa di Vicenza. In seguito fu sostituito dal maggiore Luigi Ceccarini.

L’anno seguente aderì alla Repubblica Romana, costituendo il corpo militare dei cacciatori del Tevere. Fu anche eletto nel consiglio municipale e venne chiamato a presiedere la commissione per l’approvvigionamento alimentare. Durante l’assedio francese di Roma fu impegnato nella difesa del Vascello.

Alla caduta della Repubblica, il ritorno di Pio IX non creò troppi problemi alla famiglia Tittoni. Angelo, pur conducendo una vita ritirata, continuò a svolgere la sua attività politica

Dal 1851 ospitò nella sua villa di Manziana il pittore russo Karl Pavlović Brjullov, l’autore del celebre quadro "l’ultimo giorno di Pompei", che morì proprio lì, il 23 giugno del 1852, lasciandogli in eredità numerosi dipinti e disegni eseguiti durante i suoi soggiorni romani.

A Manziana Brjullov aveva anche eseguito il ritratto a olio su tela di Angelo oggi conservato in una collezione privata. Il giovane è raffigurato in piedi, di tre quarti, con il capo voltato verso lo spettatore, una corta barba scura e l’alta fronte stempiata. Sullo sfondo, un muro a blocchi di tufo illuminato da una luce proveniente da destra. L’abbigliamento è piuttosto informale, composto da calzoni di fustagno e ampia camicia bianca, con sopra una casacca nera aperta. La vita è stretta da una fusciacca rossa. L’intensità dell’espressione conferisce al dipinto una straordinaria forza. Allo stesso pittore si deve il ritratto del fratello di Angelo, Vincenzo.

Nel febbraio del 1861 Angelo Tittoni, insieme con altri tredici cittadini, fu costretto ad andare in esilio. Solo dopo l’unità d’Italia poté tornare a Roma, dove morì nel 1882.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Filippo Cerroti, ingegnere militare e patriota

Filippo Cerroti era nato a Roma il 10 febbraio del 1819. Nel 1832 era cadetto del genio pontificio e nel 1848 aveva partecipato, con le truppe romane, alla campagna del Veneto. L’anno seguente fu alla difesa di Roma e durante il triunvirato resse il Ministero della Guerra.

Caduta della Repubblica Romana, fu costretto ad andare in esilio in Piemonte, dove entrò pian piano nella sfera d'influenza cavouriana. Militò nell’esercito sardo e combatté nel 1859. Si distinse soprattutto come ingegnere militare e ferroviario, progettando numerose strade ferrate.

Nel settembre del 1870 Nino Bixio gli affidò il comando della piazza di Civitavecchia. Nel novembre dello stesso anno fu membro del primo consiglio comunale di Roma.

Fu anche deputato del Regno d’Italia: venne eletto per la X legislatura al collegio di Avezzano il 27 novembre 1870 e per la XI e la XII legislatura al collegio di Roma II e Civitavecchia.

Si occupò persino del Tevere, con uno studio pubblicato a Firenze nel 1872, "Le inondazioni di Roma ed i provvedimenti che possono ripararvi".

Il 10 luglio del 1877 si costituiva la "Società Nazionale di Ginnastica, Scherma e Tiro a Segno", con sede nel palazzo dei conti Giannelli, in via dei Cesarini 18, oggi affacciato su corso Vittorio Emanuele.

La sezione della scherma era affidata proprio al Cerroti, all’epoca tenente generale, fiorettista provetto, che amava tirare con il braccio sinistro.

Filippo Cerroti si spense a Roma il 20 giugno 1892.

Il suo busto sul Gianicolo, opera di G. Senesi, fu realizzato nel 1903.

 

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Bartolomeo Filipperi

Tra i popolani romani che parteciparono agli eventi risorgimentali spicca un personaggio veramente particolare, Bartolomeo Filipperi, nato nel 1833 e assai influente nel rione di Trastevere.

Appena sedicenne combatté a difesa della Repubblica Romana.

Secondo la descrizione di Aurelio Saffi fu uno di coloro che "sorti dalle file degli operai e nobili di natura, furono più cari ai precursori del risorgimento italiano".

Per Giuseppe Mazzini era un romano degno di Roma.

Dopo la caduta della Repubblica, andò in esilio a Genova fino al 1870, tenendo una parte operativa nella storia del mazzinianesimo. In seguito fu membro del Comitato romano.

A vicolo Moroni era proprietario, insieme con Giovanni Mancini, del Nuovo Politeama Romano. I due gestivano anche una rinomata e caratteristica osteria annessa al teatro, detta "degli Orti Aureliani", che in seguito si sarebbe chiamata "Trattoria del Lungotevere", frequentata da letterati, artisti e giornalisti, che vi fondarono l’associazione detta "La Lega dell’Ortografia".

Il 6 febbraio del 1875 Raffaele Sonzogno, direttore del quotidiano romano "La Capitale", era stato assassinato nella sua redazione, da un uomo catturato subito dopo l'omicidio, che aveva tutta l'aria di essere un sicario. Al processo Filipperi fu al centro di una vivace polemica. Chiamato a testimoniare fu invitato a giurare sul Vangelo, ma si rifiutò, dichiarandosi un libero pensatore e dicendo di voler giurare solo sulla propria coscienza e sul proprio onore.

Nel 1882 fondò, insieme con Bartolomeo Della Bitta e Angelo Giuntini, l’Associazione "Giuditta Tavani Arquati", con sede in via della Lungaretta 97, che si distinse per il suo acceso anticlericalismo e nel 1889 arrivò a contare un centinaio di soci.

Si legge nella "Civiltà Cattolica" del 1887: "Bartolomeo Filipperi, noto garibaldino e repubblicano in Roma, che teneva in Trastevere una osteria, frequentata dai radicali, era morto da pochi giorni in Albano, dov’erasi recato per recuperare la sua salute. La sua salma si volle portare per Roma in trionfo..." L’evento si trasformò nell’occasione per un corteo e un comizio in cui si espressero con animazione e violenza sentimenti antipapali. In quello stesso anno gli venne dedicato un busto in marmo al Gianicolo, eseguito da Lorenzo Cozza, figlio di del conte Adolfo, anch’egli scultore. Nato a Orvieto nel 1877, Lorenzo si era trasferito alla fine del secolo a Roma, dove frequentò la Regia Accademia di Belle Arti e vinse il concorso per un monumento a Giacomo Leopardi a Recanati.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Ludovico Calandrelli

Ludovico Calandrelli, fratello di Alessandro, era nato a Roma il 21 agosto del 1807. Il padre Giovanni era un incisore di pietre preziose e Ludovico, nella sua fanciullezza, studiò la pittura. La vita militare, però, lo attraeva di più ed entrò nel 1816 nell’esercito pontificio, come cadetto, prima nel genio e poi nell'artiglieria. Nell'aprile del 1848, con il grado di capitano di terza classe, fu al comando di una batteria da campo nel corpo di spedizione pontificio del generale Durando, arrivando fino nel Veneto e segnalandosi in vari fatti d’armi, soprattutto difendendo Vicenza dall’attacco austriaco, per dodici ore di seguito, tra il 23 e il 24 maggio. Il 10 giugno, durante la battaglia decisiva per la città veneta, rimase alla testa della sua postazione nonostante i ripetuti attacchi nemici e partecipò alla mischia di porta Padova: azioni che gli valsero la nomina prima a capitano di prima classe e poi a maggiore.

Tornò quindi a Roma, dove aderì prima al governo provvisorio, dal quale fu nominato, nel gennaio del 1849, tenente colonnello, poi alla Repubblica. Il 30 aprile fu di presidio a porta Cavalleggeri e si distinse nella respinta dei francesi. Con il grado di colonnello, a maggio comandò l’artiglieria da campo nella battaglia di Velletri contro l’esercito napoletano. La sua azione fu preziosa durante l’assedio della Repubblica, dal 3 al 19 giugno, quando rimase ferito sui bastioni di porta San Pancrazio. Sul Giornale di Roma, nel supplemento "Elenco dei feriti", il suo nome risulta al n. 14 del 19 giugno, con l’indicazione di "contusione al torace e basso ventre". Dopo l’ingresso dei francesi, rimase a Roma fino a dicembre, quando andò in esilio volontario, prima a Marsiglia, dove rimase fino al maggio del 1850, poi a Berlino. Qui cercò di utilizzare la sua esperienza militare. Nel 1852 scrisse una relazione sull’organizzazione dell’esercito pontificio e compilò uno studio sul sistema militare prussiano. Nel luglio del 1854 si portò a Parigi ove ottenne, per interessamento del principe di Canino e del generale Vaillant, un passaporto e un imbarco gratuito per Costantinopoli, insieme ad alcune lettere di raccomandazione. In Turchia – ai ferri corti con la Russia – fu ricevuto con tutti gli onori ed entrò al soldo della Porta con il nome di Mouglis bey, ma solo all'inizio del 1855 riuscì a spingersi verso l'interno, giungendo a febbraio inoltrato nel punto chiave dello scacchiere ottomano, la città di Erzerum. Qui lo capo di Stato Maggiore dell'armata turca gli affidò il compito di preparare le postazioni di artiglieria della città in vista di una possibile avanzata delle truppe russe. Nell’esercito turco raggiunse il grado di generale. Il suo fisico era però rimasto indebolito dalle fatiche e dal clima poco salubre: Ludovico contrasse il colera, quindi un attacco di tifo ne procurò la morte, il due settembre del 1855. Fu tumulato nella chiesa armena cattolica di Erzerum, primo cristiano seppellito con musica militare turca. Nel 1887 il municipio di Roma gli eresse un busto in marmo sul Gianicolo, opera di Enrico Simonetti.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Soccorreva i feriti durante la Repubblica Romana

Clelia Nalli Massimi: un’attrice in corsia

Clelia Nalli era nata a Roma nel 1810 da Enrica e Sebastiano, entrambi romani, di estrazione borghese e assai stimati. La madre, poetessa di una certa fama, intorno al 1820, nella sua casa in via del Pozzetto, ospitava riunioni di artisti e letterati, tra cui il Ferretti, il Perticari, il Rossini, il Canova e il principe Poniatowski, durante le quali venivano letti lavori teatrali di Vittorio Alfieri e Vincenzo Monti. Tali letture si trasformarono in vere e proprie rappresentazioni, nelle quali, per motivi di spazio, lo scenario era sostituito da una semplice tabella sulla quale era indicato il luogo in cui si svolgeva l’azione. Sembra che durante una di queste recite anche il Canova interpretasse un ruolo nell’Ifigenia dell’Alfieri.

Le sue figlie Giuditta, Lavinia e Clelia, cresciute in un ambiente così colto ed effervescente, non potevano che rimanere contagiate dall’amore materno per la letteratura italiana.

Clelia si era sposata molto giovane con il chirurgo Lorenzo Massimi, anch’egli appassionato di arte drammatica. Allo spirito eletto, ai modi scelti e soavi" – scriveva Virginio Prinzivalli nelle memorie dell’Accademia filodrammatica romana - riuniva un aspetto leggiadro". Era di statura media, snella ed elegante. Aveva capelli neri e sguardo vivo, amava la lettura ed era dotata di solidi principi morali e religiosi. Nell’aprile del 1842 entrò a far parte, insieme con la sorella Giuditta, dell’Accademia filodrammatica romana. Pietro Sterbini le affidò la parte di Livia nella sua tragedia il "Tiberio".

All’inizio del 1848 promosse alcune rappresentazioni a beneficio degli asili d’infanzia. Venne anche messa in scena una singolare commedia in due atti, "L’Istituto di Montereau", il cui titolo originale era "L' anno 1814 ossia Il pensionato di Montereau", di A. P. Dennery e E. Cormon, eseguita da quattordici ragazze agli ordini di Virginia Traversi e Clelia Massimi, che, per l’occorrenza, si erano fatte istruire nelle manovre militari da un ex capitano della guardia napoleonica, il maggiore Zacchieri.

Singolare l’intreccio, ambientato in Francia, a Montereau, nel 1814, quando la cittadina era invasa dagli austriaci. I loro alleati avanzano verso Parigi e l'imperatore muove contro di loro. Il sarto Giampaolo Canivet conduce la nipote Cecilia presso la sua vicina madama Laurent, che oltre a quattro nipoti, Augustina, Clotilde, Giannina ed Ernestina, tiene a pensione anche altre giovinette, per tenerla al sicuro mentre lui è costretto a far parte della guardia nazionale. Cecilia, una ragazza molto vivace, è innamorata del giovane Alfredo, ufficiale della guardia nazionale. Induce Mulot, il giardiniere di madama Laurent, a impadronirsi delle uniformi e delle armi in possesso dello zio Canivet, quindi fa vestire tutte le pensionate da soldati e la serva Susanna da tamburino. Fa prigioniera madama Laurent, chiude lo zio nella colombaia e si nomina comandante del drappello femminile. Alfredo, ferito dai Cosacchi in un'imboscata, è soccorso da Cecilia, che poi, sapendo che sta per passare vicino al pensionato un distaccamento degli alleati, incita le ragazze a far fuoco su di loro. Questi, credendo di essere assaliti da un gran numero di soldati francesi, si danno alla fuga. Dall’alto di una collina Napoleone assiste all’avvenimento e rimane ammirato dal coraggio del volontario che comanda il drappello, ignorando che si tratta dell’intrepida Cecilia. Ordina al suo aiutante di raggiungere il giovane, riconoscibile per la sua sciarpa celeste, e di promuoverlo. Cecilia, saputa la cosa, cinge della sua sciarpa Alfredo, che, divenuto capitano, la può sposare tra il tripudio generale.

Purtroppo sulla commedia si abbatté la scure della censura teatrale, per mano del famigerato abate Somai. Agli attori fu proibito di pronunciare le parole cosacchi, russi, imperatore, Parigi, sostituite dalle generiche espressioni di nemici, capitale, paese.

Nel giro di poco tempo Clelia Massimi passò dalla guerra per commedia a quella tragica e reale della Repubblica Romana sotto le bombe francesi. La donna, di cui era noto lo spirito caritatevole – come scriveva il Prinzivalli sapeva fare "proprio l’altrui dolore" - prestò la propria opera, insieme con la giovanissima figlia Giulia, per la cura dei feriti presso l’ambulanza allestita all’ospizio della Trinità dei Pellegrini.

Da una guida per viaggiatori inglesi del 1856 sappiamo che in quegli anni Clelia Massimi dava lezioni di declamazione per signore in lingua italiana nel palazzetto Borghese.

La sera del 23 novembre 1857, appena rincasata dalla prova generale di uno spettacolo teatrale, Clelia fu colta da apoplessia fulminante e morì alle sette del mattino seguente.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Natale Del Grande, l’eroe del rione Monti

Natale del Grande era nato nel 1800 a Roma, nel rione Monti, dove era conosciuto e amato da tutti. Si era creato onestamente una ricchezza, esercitando la professione di mercante di campagna. Aderì alle idee libertarie e nel 1847 fu tra gli organizzatori della Guardia Civica. Allo scoppio della prima guerra d’Indipendenza, si arruolò tra i volontari e, con il grado di colonnello nella Legione Romana, ebbe il comando di un reggimento. Fu nelle prime file tra gli eroici difensori di Vicenza e il 10 giugno del 1848, durante la più cruenta battaglia di tutta la campagna, in cui i nemici furono per quattro volte respinti dal monte, dalle mura e dalle trincee, Natale cadde con il petto squarciato da una racchetta austriaca, una sorta di granata legata a un manico di legno. Si dice che morisse gridando ai suoi uomini: "io muoio, figlioli, ma non importa: viva l’Italia!"

Dopo la capitolazione di Vicenza, i Legionari trasportarono la salma di Natale del Grande a Roma, dove si svolsero, il 18 agosto, le solenni esequie. Fu inumata nel suo rione, nella chiesa di San Francesco di Paola, dove però nessuna lapide lo ricorda.

Scriveva Mariano D’Ayala nelle sue "Vite degl'italiani benemeriti della libertà e della patria" (1868): "Ei lasciava un figliuolo, il quale speriamo, avrà continuato la bella fama paterna". Il suo busto sul Gianicolo fu eseguito nel 1887 da Mario Gori. 

Dell’argomento si parlerà a Nuova Spazio Radio (88.100 MHz), a "Questa è Roma", il programma ideato e condotto da Maria Pia Partisani, in studio con Livia Ventimiglia il martedì dalle 14 alle 15 e in replica il sabato dalle 10 alle 11.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei Romani

Luigi Ceccarini, una vita per la patria

Tra i patrioti romani, non si può dimenticare Luigi Ceccarini. Era nato nel 1819 ed entrò a far parte dell’esercito pontificio. Infiammato come molti altri dall’iniziale patriottismo di Pio IX, volle partecipare nel 1848 alla prima guerra d’indipendenza contro l’Austria. Partì con il grado di capitano e si conquistò quello di maggiore sul campo. Nella difesa di Vicenza comandava il battaglione universitario ed era molto amato dai suoi ragazzi, con i quali riuscì a sostenere l’urto di una brigata austriaca alla Rotonda del Palladio. Alla caduta di Vicenza, Ceccarini portò il suo battaglione a Venezia, rimanendo a difesa dei forti di Marghera, Brondolo, Chioggia e Pellestrina.

Nel 1849, diventato tenente colonnello, partecipò alla difesa della Repubblica Romana dall’assedio francese condotto dalle truppe del generale Oudinot. Insieme con il capitano del genio Ravioli, il maggiore di artiglieria Lipari e il luogotenente Viola, comandò, sul monte Testaccio, una batteria di tre cannoni: uno da 36, uno da 18 e uno da 9.

Con la restaurazione del governo pontificio, Luigi Ceccarini non ottenne il perdono papale e, escluso dall’amnistia, fu costretto a riparare in Piemonte. Entrò nell’esercito sardo e prese parte alla seconda e alla terza guerra di indipendenza. Dopo l’unità d’Italia contribuì alla repressione del brigantaggio nel meridione.

Il busto di Ceccarini sul Gianicolo fu realizzato nel 1896 dallo scultore Odoardo Tabacchi (1836-1905) di Valganna (Varese), uno dei grandi autori dell’epopea risorgimentale. Nel 2004 al busto fu staccata la testa e trafugata. L’anno seguente fu ritrovata dalle forze dell'ordine.

di Cinzia Dal Maso

 

 

I romani e il Risorgimento

Melchiorre Cartoni,
un marmoraro garibaldino

Melchiorre Cartoni era nato nel 1927 da una famiglia di marmorari romani. Nel 1848 partecipò alla prima guerra d’indipendenza, arruolandosi tra i volontari. Il 10 giugno di quello stesso anno combatté in difesa di Vicenza, rimanendo ferito. Fu poi tra i difensori di Roma nel 1849. Alla caduta della Repubblica, rimase a Roma, ma fu rinchiuso sia alle Carceri Nuove che al San Michele per attività cospiratorie. Il 15 agosto del 1862, accusato di complotto contro lo Stato, si nascose in casa di parenti fino alla notte del 4 settembre, quando, durante un violento temporale, raggiunse Fiano Romano, dove trovò un’imbarcazione sulla quale attraversò fortunosamente il Tevere in piena. Passato il confine, andò a Rieti, quindi a Perugia e infine a Cortona, ospite del marchese Gualtiero. Peregrinò per l'Italia rimanendo in contatto con molti patrioti. Dal 1865 al 1870 abitò quasi ininterrottamente a Poggio Moiano, dove la sua casa fu sempre aperta a emigrati e perseguitati politici.

Il governo italiano gli affidò importanti incarichi. Fu presidente del comitato per l'emigrazione e organizzò le squadre dei volontari romani per la campagna del 1866. Fu membro del Comitato Nazionale Romano e nel 1867 partecipò all’organizzazione della spedizione di Mentana. Il 20 settembre del 1870 rientrò a Roma attraverso la breccia di Porta Pia, quindi, modesto e sereno, tornò al suo studio di marmoraro. Il suo busto al Gianicolo fu eseguito nel 1920 dallo scultore Giuseppe Tonnini.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Uno dei cittadini romani protagonisti del Risorgimento

Augusto Valenziani, caduto a Porta Pia

Scriveva Silvio Negro nel 1941: "l’elenco dei Caduti per Roma sarà inciso, distribuito per epoche, su1 bianco marmo delle lastre che chiudono i loculi dell’ossario: si aprirà con il nome del romano Paolo Narducci, che fu il primo caduto del ‘49, e si chiuderà con quello di un altro romano, la medaglia d’argento Augusto Valenziani, ufficiale dell’esercito italiano dopo essere stato volontario nel ‘49, primo caduto di Porta Pia. La circostanza vale anche a mettere in evidenza la larga partecipazione dell’elemento romano tra i Caduti, a sfatare una leggenda ingiusta sulla quale speculò anche la passione politica, quella che attribuiva l’iniziativa e il merito degli avvenimenti ai venuti di fuori.". Valenziani era nato nel 1832 e, forse come cameriere segreto, aveva fatto parte della corte papale. Giovanissimo fu impegnato nella difesa della Repubblica Romana, quindi partecipò alla III Guerra d'Indipendenza. Era luogotenente del 40° fanteria e il 20 settembre 1870, a Porta Pia, fu uno dei primi ufficiali del reggimento a superare la barricata esterna, ansioso anche di riabbracciare, dopo tanti anni, la vecchia madre. Morì per la fucilata di uno zuavo pontifico.

Pietro Cossa gli dedicò una toccante lirica. Il suo busto sul Gianicolo è opera dello scultore Publio Morbiducci (1920), artista romano noto per il monumento del Bersagliere a Porta Pia.

Nel 1941, la stele funeraria della sua tomba al Verano fu inserita da Giovanni Jacobucci nel Monumento a tre caduti per la liberazione di Roma 1870.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Perì nel naufragio del piroscafo che lo portava in America

Giovanni Angelo Ossoli

Il marchese Giovanni Angelo Ossoli era nato a Roma – ultimo di otto figli - il 17 gennaio del 1821, da Filippo e Maria Anna Cleter. Il suo casato era originario della Lombardia, ma si era stabilito nel Lazio fin dal 1701. Alto e di bella presenza, timido e non molto colto, si infiammò ben presto degli ideali mazziniani. Il 1° aprile del 1847 – era giovedì santo – incontrò per caso a San Pietro una donna americana più matura di lui, ma piena di fascino e di idee progressiste, già affermata come giornalista nel suo paese: era Margaret Fuller, che aveva perso di vista gli amici con i quali stava assistendo ai Vespri. Il marchese, con galanteria tutta latina, si offrì di riaccompagnare a casa la donna, che dal canto suo era rimasta subito impressionata dall’aspetto malinconico e dalla cravatta a fiocco del giovane. Nacque presto l’amore, contrastato dalla famiglia di lui, che non vedeva di buon occhio questa femminista ante litteram, oltre tutto di religione protestante. Solo la sorella Angela D’Andreis (1809 – 56) gli rimase sempre vicino, comprendendo le sue scelte politiche e sentimentali. Gli storici hanno cercato invano tracce del matrimonio di Margaret e Giovanni Angelo nei documenti ufficiali. Forse il loro fu un matrimonio di coscienza, rimasto segreto. Risultano "coniugi" nel certificato di battesimo del loro unico figlio, Angelo Eugenio Filippo, nato a Rieti il 5 novembre del 1848. Margaret rimase per due mesi con il piccolo, poi lo affidò a una balia e tornò a Roma, dove forse andò ad abitare insieme con il marito presso la sorella di lui, Angela, in via di Sant’Eufemia 188. Qui la situazione stava rapidamente precipitando. Il 15 novembre c’era stato l’assassinio di Pellegrino Rossi, ministro dell’interno del governo pontificio. Il 24 dello stesso mese Pio IX era fuggito da Roma su una carrozza chiusa, vestito da sacerdote, per rifugiarsi a Gaeta. I patrioti affluivano a Roma da tutta l’Italia. Ai primi di dicembre erano già arrivati Garibaldi, Angelo Masina e Goffredo Mameli.

Ricevuta la notizia della fuga del Papa, il ministero Galletti si dimise, ma la Camera dei deputati, confermati i poteri al Governo, mandò una deputazione a Gaeta, che fu respinta ai confini napoletani.

Il 21 e 22 gennaio del 1849 si tennero, senza incidenti, su tutto il territorio dello Stato, le elezioni per la Costituente romana. Nonostante il Papa avesse minacciato di scomunica tutti coloro che vi avessero partecipato, l’afflusso alle urne fu straordinario. Il 9 febbraio, in Campidoglio, fu solennemente proclamata la Repubblica Romana. Giovanni Angelo Ossoli, sergente della guardia civica, mobilizzata all’inizio del 1849, fu arruolato nella seconda compagnia del primo battaglione e si distinse nella difesa della Repubblica assediata dalle truppe del generale Oudinot, guadagnandosi il grado di capitano.

Intanto Margaret, pur preoccupata per la vita del marito, prestava la sua opera per la cura dei feriti, come regolatrice dell’ambulanza posta all’ospedale dei Fatebenefratelli, all’Isola Tiberina. Dopo un cannoneggiamento francese che aveva sconvolto la città, scrisse in una lettera, rivolgendosi alla luna che saliva tra le nuvole: "è possibile che il tuo globo guardi su una Roma che fuma e brucia e veda il suo sangue migliore scorrere tra le pietre senza che ci sia uno al mondo che la difenda, uno che venga in aiuto, neppure uno che gridi un tardivo vergogna!"

Caduta la Repubblica, il 3 luglio 1849 i francesi entrarono a Roma. Margaret e Giovanni Angelo tornarono a Rieti per riprendersi il figlio, quindi ripararono a Firenze. Le loro finanze si assottigliavano ogni giorno di più. Giovanni Angelo, la cui famiglia da tempo non era in condizioni floride, non aveva mai lavorato e le corrispondenze di Margaret non bastavano a sbarcare il lunario. Decisero di partire per l’America, anche se la giornalista era innamorata del nostro Paese. Aveva scritto in un suo articolo: "dovunque io vada una gran parte del mio cuore rimarrà sempre in Italia. Spero che i suoi figli mi riconosceranno sempre come una sorella, sebbene non sia nata qui".

Per scarsità di mezzi finanziari, si imbarcarono – nel maggio del 1850 - su un piroscafo mercantile a vela, la Elizabeth. All’alba del 19 luglio, a poca distanza dal porto di New York, la nave si incagliò nelle secche di Fire Island e intorno alle due del pomeriggio colò a picco trascinando con sé i due coniugi. Solo il corpo del figlioletto toccò terra, ma ormai senza vita. Fu seppellito nel cimitero di Mount Auburn, nel Massachusetts, nella tomba che è anche memoriale dei suoi sfortunati genitori (nella foto).

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei Romani

Ulisse Seni, un eroe di diciannove anni

Nella sua "Storia delle guerre d’Italia dal 18 marzo 1848 al 28 agosto 1849" Luigi Scalchi riferiva i principali episodi avvenuti il 12 giugno 1849 durante la difesa della Repubblica Romana: "il secondo battaglione del reggimento Unione combattè a petto a petto coi Francesi per distruggere le loro opere d’assedio. Il Maggiore Panizzi che comandava il battaglione cadde sul campo di battaglia. Incontrarono pure la stessa sorte i due Ufficiali Cremonini e Giordani. In questo fatto d'armi il Generale Bartolomeo Galletti diede prove di alta fermezza, ed ebbe ferito il suo Ajutante di campo, il Capitano Warne. Fu ferito parimente Ulisse Seni romano ufficiale nel 2° reggimento di linea. Esso fu colpito da una palla di stutzen nel capo mentre comandava il fuoco a sinistra contro il nemico avvicinato a porta S. Pancrazio; morì pochi giorni dopo". Questo nostro coraggioso concittadino aveva appena 19 anni. Altre notizie si apprendono dal Monitore Romano del 18 giugno. Ulisse Seni aveva il grado di sottotenente e fu ferito mentre infondeva coraggio ai suoi soldati, comandando il fuoco a sinistra nel tentativo di impedire l’avanzata dei Francesi a Porta San Pancrazio. "Non si udì voce di lamento dal suo labbro nei tre giorni di tormentosa agonia che dovette soffrire nello Spedale di Santa Maria della Scala ove del bombardamento si udiva senza interruzione il rimbombo; ma in mezzo alle convulsioni e nei vaniloqui del delirio, ripeteva parole d’incitamento alla battaglia e d’ira contro le quattro nazioni che con inique lotte la Patria dilaniavano". Il giovane spirò il 15 giugno, alle 9 di mattina.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Sposò Bartolomeo Galletti e curò i feriti della Repubblica

Anna de Cadilhac, la "bella di Roma"

Anna Galletti de Cadilhac era nata a Roma il 24 marzo 1825 dal francese Alessandro e dalla romana Maria Luisa Salandri-Magatti. Rimasta orfana in tenerissima età, fu affidata alle cure della nonna e della zia materna. Poco più che adolescente, si innamorò perdutamente del conte Bartolomeo Galletti, che la ricambiava con passione. Il conte doveva essere veramente un bell’uomo: Garibaldi lo avrebbe definito, qualche anno più tardi, "un eroe bello al pari di un eroe dell’antica Grecia, coraggioso, intelligente, devoto alla patria". Anche se sorsero non pochi impedimenti, alla fine giunse il giorno, anzi la notte del matrimonio: il 15 ottobre del 1842, dopo la mezzanotte, a casa del parroco di San Giacomo in Augusta. Gli sposi andarono ad abitare in piazza Pollarola. Il matrimonio avrebbe cambiato la vita di Anna, contagiata dal patriottismo del marito. Nel 1848 fu promotrice di una manifestazione di donne romane. Organizzava feste per sovvenzionare gli ospedali, gli asili d’infanzia, i soldati. Il popolo la chiamava la "bella di Roma".

Nel 1849, durante la difesa della Repubblica Romana, si prodigò nell’assistenza ai feriti, come sottodirettrice dell’Ospedale dei Pellegrini, dove, come apprendiamo dalle sue memorie, servivano anche Anna Mandolesi, Amalia Canini, Elisa Castellani Truvé e le sue sorelle Francesca ed Augusta Castellani, l’intera famiglia di Filippo Paradisi con moglie e tre figlie, tra cui Maria Paradisi Ossani e Clelia Massimi, dilettante drammatica, con sua figlia. Si viene anche a sapere che "Garibaldi, quando la sera, al tardi, veniva a visitare i feriti, a cui facea parole di conforto, non mancava mai di porgermi compagnia dopo la mezzanotte in cui rincasavo, e mi chiamava l’angelo di quello Spedale e mostravami profondo rispetto e deferenza. Spessissimo mi portava i cordiali saluti della sua buona Annita".

"Pio IX – scrisse Anna nelle sue memorie - scomunicò tutte le signore che prestarono la loro opera ai feriti, trattandoci come le ultime donne dell’abbietta società, mentre il nostro unico scopo era di sollevare quei miseri, che tutto avevano sacrificato all’altare della Patria... noi non eravamo state delle meretrici, ma spinte solo dalla carità cristiana per salvare i feriti ed assistere, consolando i morienti, lontani dalle loro infelici famiglie, e che rigorosamente s’osservava che anche le infermiere della notte, che non erano sotto la nostra vigilanza, fossero tutte principalmente di specchiata moralità. La nostra opera caritatevole non era solo per i nostri feriti, ma si estendeva con eguale amore, compassione e carità anche ai nemici Francesi e Napoletani ivi degenti".

Caduta la Repubblica, Bartolomeo Galletti fu esiliato e Anna, rimasta a Roma, si distinse per impegno politico e bellezza. Nel 1863 intrecciò una relazione con Vittorio Emanuele II, che le costò la separazione dal marito.

Morì a Napoli, in solitudine, nel 1896.

di Cinzia Dal Maso

 

 

I trecento effettivi erano studenti, professori e impiegati della Sapienza

Il Battaglione Universitario
che difese Roma Repubblicana

A seguito della caduta della Repubblica Romana, il 6 luglio 1849 si sciolse anche il Battaglione Universitario Romano. I suoi giovanissimi componenti si erano ricoperti di gloria nella difesa della città, pagando un prezzo altissimo: 27 caduti, tra cui i fratelli Alessandro e Francesco Archibugi. Così suonava un anonimo canto risorgimentale del 1848: "quanta schiera di gagliardi, quanto riso ne’ sembianti. / Quanta gioia negli sguardi vedi a tutti scintillar. / Lieto evviva, lieti canti odi intorno a risuonar. / D’impugnar moschetto e spada primo a offrire il nostro petto. / Di salvar questa contrada giuriam tutti nel Signor. / Chi non giura è maledetto, chi non giura è un traditor. / La vittoria è nostra ancella, nostro sogno è libertà". Il Battaglione, che avrebbe dovuto avere 8 compagnie, era formato da reduci della campagna del Veneto, studenti, professori e impiegati della Sapienza. Vi erano ammessi anche liceali, a patto che avessero compiuto il diciottesimo anno di età, e gli allievi dell’Accademia di San Luca: in tutto 300 effettivi, "numero magico anche questo e nulla di più grandioso dei trecento di Leonida e dei trecento Fabi", come scrisse Garibaldi ne "I Mille".

Simbolo del Battaglione, la sua bandiera, che nella sua prima fase, durante la campagna del ’48, aveva le fasce tessute in oro e argento, i colori pontifici. Ma dopo che il 29 aprile di quello stesso anno Pio IX aveva pronunciato la famosa allocuzione "Non semel", con la quale sconfessava l’azione del suo esercito e la guerra all’Austria, vennero sostituite con tre fasce tricolori sulle quali furono applicate in nero delle scritte che ricordavano combattimenti dal Battaglione.

Sulla fascia verde si legge: Cornuda 8 maggio 1848 – Vicenza 20–24 maggio e 20 giugno 1848; su quella rossa: Treviso 12 maggio 1848 – Roma 30 aprile 1849; sulla bianca: Battaglione Universitario – Palestrina 9 maggio 1849.

L’Università di Roma La Sapienza al tempo aveva sede in Corso Rinascimento, nell’edificio attualmente occupato dall’Archivio di Stato di Roma. Lì aveva quartiere anche il Battaglione, in alcuni ambienti sulla sinistra di chi esce dal portone verso piazza

S. Eustachio, dove oggi si trova la Biblioteca Alessandrina, affacciati sul cortile attraverso finestre protette da inferriate. Fu proprio da una di quelle finestre che uno studente riuscì a salvare la bandiera, il 3 luglio del 1849, quando i Francesi, entrati da Porta del Popolo, stavano per occupare l’Università. Pietro Pieri, questo è il nome dello studente, porse il vessillo a Filippo Zamboni, già nel cortile, che la staccò dall’asta e la nascose sotto la sua giubba. Quindi tutti e due uscirono dalla porta posteriore dell’Università. Qualche giorno dopo entrambi, con l’aiuto di un professore di chimica, nascosero sotto una trave del soffitto l’asta, che però non venne più trovata. La bandiera, invece, fu gelosamente custodita dallo Zamboni, che se l’era fatta cucire dalla madre all’interno della sua giacca. Lì rimase per molti anni, fino al 1861, quando la fece scucire per esporla nella sua abitazione. Ma Garibaldi, che conosceva l’importanza di quel cimelio, spinse lo Zamboni a donarlo al Comune di Roma. La cerimonia di consegna si tenne in Campidoglio, il 15 settembre del 1876, alla presenza del sindaco Pietro Venturi. Dodici reduci del Battaglione sottoscrissero il verbale di consegna. Il Comune di Roma volle donare allo Zamboni una copia del prezioso vessillo, oggi al Museo Civico di Trieste.

La bandiera originale, invece, andò nel Vittoriano, presso l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano. Le fasce sono custodite dal Comune di Roma. La bandiera fu mostrata alla prima Esposizione Nazionale di Torino, nella sezione dedicata al Risorgimento, quindi fu esposta all’Università di Bologna nel 1897, in occasione del primo centenario del nostro tricolore. Il 15 settembre 1941 la gloriosa bandiera avvolse l’urna con i resti mortali di Goffredo Mameli, provvisoriamente traslati dalla tomba del Verano al Vittoriano, prima di essere definitivamente collocati nel Mausoleo del Gianicolo.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Partecipò alla difesa della Repubblica Romana

Il Battaglione della Speranza,
un manipolo di eroi bambini

Nel novembre del 1847 un ex ufficiale piemontese, Pantier, raccolse alcuni adolescenti romani e cominciò ad addestrarli militarmente: nasceva così il Battaglione della Speranza, in seguito capitanato da Masserano e aggregato alla Guardia Civica Mobilizzata di Roma comandata dal colonnello Palazzi.

Il primo di ottobre del 1848, un primo gruppo di quei ragazzini in divisa si radunò nella locanda Martignoni, in via della Lungara, alla presenza di Angelo Brunetti, Ciceruacchio. Dopo aver eseguito alcune esercitazioni, i giovinetti si sedettero a tavola con Ciceruacchio, che improvvisò per loro dei versi: "Viva la nuova Civica / più non temiam perigli / d’antichi eroi siam polvere / del Nono Pio siam figli".

Nel 1849 il Battaglione – forte di 33 elementi - partecipò attivamente alla difesa di Roma, distinguendosi soprattutto alla breccia dell’ottavo bastione, presso Porta San Pancrazio, dove si fece ricordare il Della Porta.

Così scriveva, nel 1850, una penna reazionaria, quella di Gaetano Valeriani: "verso il cadere della Repubblica alla mobilizzata si associò una Compagnia d'imberbi ragazzetti, che portava il nome di Battaglione della Speranza, titolo che esprimeva la speranza che doveano in esso nutrire i popoli, come in un semenzajo d'invitti campioni futuri. Ed esteri e nazionali tenevano in ridicolo questo Corpo microscopico, i componenti il quale, nella maggior parte, avean bisogno tuttora delle cure materne della nutrice. A questi elementi si affidava la salvezza, anzi l’eternità, della Repubblica Romana!"

La piccola formazione diede il suo tributo di sangue alla causa repubblicana, con almeno quattro morti, tutti dodicenni. Tre di loro erano romani: David Bucchi, Francesco Michelini e il tamburino Attilio Zampini, caduto il 30 giugno. Il romagnolo Vincenzo Matteucci era morto il 3 giugno.

Tra i feriti, il quattordicenne Antonio Lizzani, appartenente a una nota famiglia romana di patrioti.

Gli "Speranzini" erano impudenti e sfrontati. Uno di loro riuscì persino, sollevato da alcune persone, a tagliare la penna rossa del cappello di una guardia svizzera, mentre uno dei suoi compagni si impadroniva dell’alabarda di un altro svizzero.

Furono tanti gli episodi eroici che ebbero per protagonisti questi piccoli soldati che gli stessi francesi, una volta caduta la città, vollero rendere omaggio al loro valore.

Ma l’intera difesa della Repubblica si avvaleva, in ogni suo reparto, di giovanissimi, se non addirittura di bambini. Erano tamburini, portaordini, attendenti, ma spesso combattevano, in un misto di coraggio e di incoscienza. I francesi erano incuriositi dalle voci argentine e squillanti che arrivavano fino alle loro postazioni, oltrepassando i bastioni. Un giorno si informarono presso un ufficiale italiano che era andato a parlamentare. "Sono i nostri giovanetti – rispose questi – che da 12 a 13 anni si arruolano nella truppa per combattere in difesa della libertà della Patria".

Essenziale era la funzione dei tamburini. Quegli stessi che durante le parate, nelle loro sgargianti divise, segnavano il passo dei soldati, si ritrovavano nei combattimenti scamiciati e laceri, come si vede in una stampa di Luigi Calamatta, per incitare alla lotta e alla resistenza, battendo convulsamente sui loro tamburi la "carica".

Emblematica la storia di un giovane ciociaro, Domenico Subiaco, nato a Ripi il 4 dicembre 1832 da due contadini, Giovanni e Angela Maria Paparelli. Appena sedicenne, nel 1849 volle essere tra i difensori della Repubblica Romana. Per la sua statura, non fu ritenuto adatto al combattimento. Non gli venne affidato un fucile, ma fu nominato tamburino del I Reggimento Fanteria e come tale prese parte a più di una battaglia. Il 3 giugno era sul Gianicolo, sotto il fuoco del generale Oudinot.

Come racconta Ceccarius, Domenico suonò l’allarme e la carica. Poi, gridando "viva l'Italia!" e "viva Roma!", "raccolse il fucile di un soldato caduto al suo fianco, spianandolo contro il nemico, ma una palla francese lo colpì nel mezzo della fronte".

L’episodio è riferito anche da Camillo Ravioli: "dall’alto della porta di S. Pancrazio tirò a petto scoperto gettata l'uniforme - e lo vid’io nel mattino di quel giorno stesso 3 giugno - da dieci a dodici colpi contro i francesi che assalivano il bastione ottavo, facendosi porgere l'arma carica dai compagni che gli erano di sotto, finché una palla nemica lo colpì nel parietale sinistro e lo gettò rovescio e moribondo a basso".

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei Romani

Settimi, uno dei tanti eroici popolani

Dal 30 aprile al 30 giugno 1849, la partecipazione dei romani, trasteverini e non, alla difesa della Città Eterna, fu piena e convinta. "Roma, nell’insieme del suo popolo – scriveva Aurelio Saffi a sua madre – non si è levata mai a tanta moralità, a tanta dignità, a tanta grandezza di sentimenti generosi, quanto al presente", aggiungendo che "la virtù e il coraggio di questo popolo supera ogni lode, è un popolo degno della libertà per cui combatte". Purtroppo, della maggior parte di questi umili eroi si è persa la memoria. Particolarmente interessante è, quindi, una dichiarazione di Giovanni Venanzi, difensore della Repubblica e dopo il 1867 Consigliere comunale di Roma, relativa alla giornata del 30 aprile 1849: "fra i volontari sortiti all’aperto dalla Porta S. Pancrazio e scorrazzanti in quei pressi, ebbi più volte a notare un popolano dall’accento schiettamente romano, senza cappello e dai capelli grigi, il quale si distingueva per l’arrischiato coraggio e l’esaltamento da cui era invaso. Col fucile impugnato e gridando ferocemente egli appariva e rispariva saltando fossi e burroni e correndo anelante in traccia del nemico".

Quella stessa sera, Venanzi ritrovò l’uomo tra i morti deposti presso la Sacrestia di San Pietro in Montorio. Ne osservò i lunghi capelli grigi, il corto naso, il colorito pallido, l’alta statura, la taglia svelta e nerboruta. Poteva avere cinquanta anni. Era vestito di una camiciola di velluto color oliva, calzoni lunghi e scuri, calze bianche e scarpe accollate. La camicia, semiaperta, era di tela grossolana, ma bianchissima. Sul petto, sotto l’apertura, era ricamato in rosso il suo cognome: Settimi.

 

di Cinzia Dal Maso

 

 

I Romani e il Risorgimento

Filippo Casini, il leone della Montagnola

Filippo Casini, nato il 13 gennaio 1822 a Roma, si era laureato in ingegneria. Conosceva sette lingue e si era meritato l’alto grado di ufficiale onorario di artiglieria. Nella terribile notte tra il 29 e il 30 giugno del 1849 – con Roma assediata dai francesi - si era offerto volontario, "senza soldo e senza ascenzo", per il comando dell’ultima batteria della difesa, quella della Montagnola, presso San Pietro in Montorio. Venne accontentato. Intorno a lui cadevano tutti i suoi soldati, insieme con l’altro tenente, anch’esso romano, Oreste Tiburzi. Rimasto solo, Casini, a cavalcioni di un cannone, continuò a tirare terribili fendenti con la sciabola, finché non cadde a terra coperto di sangue. I francesi lo ritennero morto. Solo il mattino seguente, nel corso di una perlustrazione, si accorsero che era ancora vivo e lo trasportarono in un’ambulanza. Il medico francese che lo soccorse, in un rapporto sulla Gazette Medicale de Paris, ne descrisse l’eroico comportamento: "è stato portato all’Ambulanza medica di Villa Pamphili un Ufficiale dell’Artiglieria romana, che aveva il cranio spaccato da dodici colpi di sciabola, una coscia forata da dodici colpi di baionetta, e una doppia frattura al braccio destro. Egli aveva difeso la sua batteria come un leone difende la sua prole e ha ceduto soltanto quando alla sua volontà più non obbediva il braccio fracassato". Il coraggio di Casini aveva toccato il cuore dei francesi. Lo stesso generale Oudinot volle andare a trovarlo per elogiarne la condotta e per specificare che lo riteneva non un prigioniero ma un ospite. Fu accompagnato a casa dalla madre, in via Paola, su una barella scortata dal picchetto d’onore francese. Purtroppo il suo fisico era rimasto minato e l’eroe sarebbe morto un anno dopo, il 15 agosto 1850, per marasma.

Venne seppellito in San Carlo al Corso, dove è ricordato da un monumento. La sua tomba, però, non è stata ritrovata.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Il Risorgimento dei romani

Paolo Narducci, il primo illustre caduto per Roma repubblicana

La solenne sconfitta subita il 30 aprile 1849 dai francesi all’assedio di Roma fu determinata anche dal coraggio di un giovane romano. Paolo Narducci era nato l’8 giugno del 1829 ed era stato battezzato in San Pietro. Aveva studiato con profitto prima disegno all’Accademia di San Luca, poi filosofia e matematica.

Nel marzo del 1848 avrebbe voluto partecipare alla prima guerra di indipendenza, ma i suoi genitori non glielo permisero. Intanto diventava cadetto d’artiglieria e poi tenente in seconda. Appena saputo dello sbarco delle truppe di Oudinot a Civitavecchia chiese e ottenne di essere mandato in prima linea, destinato prima a Porta Angelica, quindi ai bastioni di Santa Marta sui Giardini Vaticani, vicino alla Porta Pertusa. Qui si rese subito conto che la via Aurelia, da cui sicuramente sarebbe giunto il nemico, era difesa solo da due obici posti in cannoniere male costruite e disse ai suoi colleghi: "qui con quattro colpi di cannone mi mandano per aria i parapetti e gli artiglieri, e da queste vigne dovrò finire con una palla in petto". Quindi avvertì il comando dell’esistenza di una strada che girava alle falde di Monte Mario e poteva essere usata dal nemico per sorprendere Porta Angelica, di cui chiese di rinforzare le difese. Come il giovane aveva previsto, una parte dei francesi prese la strada a valle di Monte Mario per tentare di ricongiungersi al resto della truppa che intendeva entrare nei giardini vaticani dopo aver sfondato la Porta Pertusa. Qui però gli assalitori trovarono il coraggio e la tenacia del Narducci, che seppe battersi come un vecchio soldato, mentre i suoi gli cadevano ai piedi morti o feriti. Fu anche costretto a caricare e puntare il cannone da solo, finché una palla di stutzen lo ferì mortalmente al petto. Ma i francesi non entrarono. Paolo Narducci morì all’ospedale di Santo Spirito alle due e mezza del mattino del 2 maggio.

di Cinzia Dal Maso

 

 

 

LUIGI CALAMATTA RIFIUTÒ DI FARE UN RITRATTO A LAMARTINE

UNA RISPOSTA DAVVERO PUNGENTE

Tra gli illustri personaggi che ebbero i natali a Civitavecchia, un posto a parte merita Luigi Calamatta. Nato il 21 giugno 1801, rimase orfano in tenera età e fu inviato da uno zio a Roma, all'Ospizio di S. Michele, perché vi apprendesse un mestiere. I suoi insegnanti si accorsero ben presto che il fanciullo era abilissimo nel disegno e lo introdussero all’arte dell’incisione. Uscito a 19 anni dall’Istituto, lavorò con valenti maestri, tra cui lo scultore Bertel Thorvaldsen. Fu a Parigi che il Calamatta raggiunse la gloria: le sue incisioni erano richiestissime ed erano ritenute insuperabili. Durante un banchetto nella Capitale francese, il poeta Lamartine, tristemente famoso per aver chiamato l’Italia "terra di morti", gli chiese di fargli un ritratto. Il Calamatta gli rispose di essere italiano e lo invitò a cercare fra i vivi chi gli volesse fare l'effigie.

di Cinzia Dal Maso

 

 

 

GIACINTO BRUZZESI, GARIBALDINO, PARTECIPÒ ALLA SPEDIZIONE DEI MILLE

UN ILLUSTRE CITTADINO DI CERVETERI

Il 12 dicembre 1822 nasceva a Cerveteri – da Lelio Antonio Bruzzesi e Barbara Ponziani – un bimbo che fu chiamato Giacinto Leopoldo Gaetano. Ad impartigli il sacramento del Battesimo fu quell’Arciprete Regolini che sarebbe diventato famoso per aver scoperto nella necropoli del Sorbo, nell’aprile del 1836, la più ricca tomba etrusca, con il suo splendido corredo di oreficerie. Giacinto Bruzzesi fu ufficiale della Repubblica Romana del 1849, meritando una medaglia d’oro al valore. Partecipò alla seconda guerra di indipendenza e alla spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. A testimonianza della sua vita avventurosa, resta un volume autobiografico: "Dal Volturno ad Aspromonte, memorie del colonnello Giacinto Bruzzesi. Diario di campo, documenti diplomatici e dello Stato Maggiore, relazioni..."

Riuscì a scampare ai pericoli di tante battaglie e morì ormai anziano, nel 1899, dopo aver visto l’Italia unita, con Roma per Capitale.

di Cinzia Dal Maso

SPECIALE RISORGIMENTO - SPECCHIO ROMANO

 

 

NEL 1849 A ROMA DIRESSE IL COMITATO DI SOCCORSO DEI FERITI E LE AMBULANZE

Cristina Trivulzio di Belgiojoso,

la principessa odiata dai francesi

Nella primavera del 1849, la disperata difesa della Repubblica Romana dai francesi del generale Oudinot vide accorrere uomini da tutta l’Italia, organizzati alla meglio. Alcuni corpi diventeranno famosi, come la Legione Italiana di Garibaldi, la Legione Romana, i Bersaglieri Lombardi di Manara, la legione dei Volteggiatori Italiani di Giacomo Medici. Ma anche numerose donne seppero dare un indispensabile apporto nei modi più disparati. Tra loro spicca Cristina Trivulzio di Belgiojoso, principessa della migliore aristocrazia lombarda, nata a Milano nel 1808, una "patriota impegnata, intellettuale ed esule", come la descrivono Ginevra Conti Odorisio e Fiorenza Taricone" nel volume "Per filo e per segno" (Giappichelli Editore).

Crebbe in una casa in cui respirò fin dall’infanzia un clima di cospirazione, frequentata da personaggi come Silvio Pellico, Federico Confalonieri e Gian Domenico Romagnosi. Un ritratto di Francesco Hayez del 1832 ne mostra i capelli scurissimi come gli occhi profondi e indagatori, un sobrio vestito nero che però lascia scoperte spalle e braccia.

"Dopo la sconfitta piemontese", spiegano Conti Odorisio e Taricone, "decise di recarsi nella Repubblica romana, nella quale vide la possibilità di costruire un primo Stato italiano indipendente. Si unì così a Mazzini, nominato da poco triumviro, pur non condividendo tutti i suoi principi".

A Roma la situazione era drammatica. Le bombe francesi facevano strage di civili e di soldati, dopo ogni scontro non si sapeva più dove mettere i feriti, né con cosa soccorrerli e curarli. Mazzini affidò a Cristina l’organizzazione della sanità pubblica e dei convogli di ambulanze militari, oltre alla direzione del comitato di soccorso di cui facevano parte Enrichetta di Lorenzo, compagna di Pisacane, la marchesa Giulia Paulucci e l’americana Margaret Fuller.

Cristina lanciò un appello alle donne romane affinché la aiutassero ad assistere i feriti. L’avviso è datato 27 aprile 1849 e recita: "nel momento che un Cittadino offre la vita in servizio della Patria minacciata, le Donne debbono anche esse prestarsi nella misura delle loro forze e dei loro mezzi... sin d’oggi si è pensato di comporre una Associazione di Donne allo scopo di assistere i Feriti, e di fornirli di filacce e di biancherie necessarie. Le Donne Romane accorreranno, non v’ha dubbio, con sollecitudine a questo appello fatto in nome della patria carità.. Le offerte in biancheria, filacce ecc. ecc. possono pure essere dirette alle Cittadine componenti il Comitato..."

Furono moltissime a rispondere alla chiamata, di tutte le classi sociali e di ogni regione, persino straniere, dame irreprensibili ma anche alcune prostitute di professione. Ne scelse trecento con una durissima selezione, che tenne conto certamente più dell’interesse dei feriti che della morale. Il loro impegno non conosceva riposo. Faceva caldo e per essere più libere nei movimenti non si preoccupavano di prodigarsi con le maniche rimboccate, un vero scandalo per la società ipocrita dell’epoca, ma soprattutto per Pio IX, che nell’Enciclica "Noscitis et Nobiscum", lamentava che "più d’una volta gli stessi miseri infermi già presso a morire, sprovveduti di ogni conforto della Religione, furono astretti ad esalare lo spirito fra le lusinghe di sfacciata meretrice".

La Belgiojoso rispose al Pontefice con una lettera pacata ma decisa nei toni di non voler sostenere "che tra la moltitudine di donne che, durante il maggio e giugno del 1849, si dedicarono alla cura dei feriti non ve ne fosse neppure una di costumi reprensibili". "Vostra Santità – continuava - si degnerà sicuramente di considerare che non disponevo della Polizia Sacerdotale per indagare nei segreti delle loro famiglie, o meglio ancora dei loro cuori". La cosa più importante era però che quelle donne "erano state per giorni e giorni al capezzale dei feriti; non si ritraevano davanti alle fatiche più estenuanti, né agli spettacoli o alle funzioni più ripugnanti, né dinnanzi al pericolo, dato che gli ospedali erano bersaglio delle bombe francesi". Anche la stampa dell’epoca volle fare la sua parte, incolpandola di fare alzare la febbre ai pazienti con la sua bellezza. I gazzettisti francesi, in particolare, velenosamente criticarono quelle donne pietose che rincuoravano e curavano anche i loro connazionali feriti. Padre Bresciani, un gesuita molto noto all’epoca, le chiamò "svergognate, che tenean luogo del demonio tentatore al capezzale di quegli infelici..." e definì la Belgiojoso "sfacciata ed impudente".

La Belgiojoso faticò non poco a reperire i locali dove poter accogliere e curare i feriti, effettuando vari sopralluoghi in chiese e conventi. Alla fine mise in piedi ben dodici ospedali militari tra cui quello ampio nel Quirinale e organizzò il primo corpo di infermiere volontarie. Si occupò anche del sostentamento dei malati, chiedendo con insistenza al Triumvirato di continuare a pagare il soldo ai militari feriti. Tante e tali furono le sue critiche al governo provvisorio, che Mazzini la definì "un vero tormento".

Fu lei ad assistere amorosamente Goffredo Mameli nella sua agonia all’Ospedale della Trinità dei Pellegrini, dove era entrato per una medicazione e un breve ricovero. Ma sembra che, nella concitazione del momento, gli fosse stato estratto dalla gamba un proiettile, dimenticando però lo stoppaccino, ossia la garza contenente la polvere da sparo, provocando la cancrena. Quando la Belgiojoso se ne accorse, le sue urla si udirono per tutta la corsia. Nemmeno l’amputazione della gamba riuscì a salvare il giovane poeta, che spirò tra le braccia della principessa il 6 luglio. Proprio in quei giorni Cristina scrisse in un lettera all’amica Jaubert: "Per quanto sia grande la vostra immaginazione, non vi raffigurerete mai la realtà dolorosa della mia vita durante i bombardamenti di Roma...Potevo addormentarmi, sapendo di non ritrovare vivi, al mio risveglio, tutti coloro che con voce flebile la sera mi avevano augurato una notte tranquilla? Potevo prevedere quante mani avevano stretto la mia per l’ultima volta? Quanti lenzuoli rovesciati sul guanciale mi avrebbero annunciato alla vista del mattino, un martire in più?"

La Repubblica Romana cadde il 3 luglio, e dopo circa un mese la Belgioioso dovette lasciare la città, avvertita da un prete a cui aveva salvato la vita che un fascicolo che la riguardava era sul tavolo di un cardinale, con la scritta "sentimenti irreligiosi".

Le accuse più ingiuste e infamanti, però, furono quelle di furti e di malversazione nell’amministrazione delle ambulanze.

di Cinzia Dal Maso e Antonio Venditti

SPECIALE RISORGIMENTO - SPECCHIO ROMANO

 

 

LA LAPIDE A VIA DELLA LUNGARETTA NE RICORDA LA TRAGICA MORTE

Un’eroina trasteverina:
Giuditta Tavani Arquati

Nella storia di Roma antica e recente si distinguono numerose figure femminili che hanno partecipato con fermezza e coraggio al complesso fenomeno culturale della guerra. Tra le eroine rinascimentali, non si può dimenticare Giuditta Tavani Arquati, della cui tragica morte è appena caduto l’anniversario.

Era nata a Roma nel 1836 e visse a Trastevere, dove sposò nella chiesa di San Crisogono Francesco Arquati, di umile condizioni, da cui ebbe molti figli. A causa di ristrettezze economiche, la famiglia fu costretta a trasferirsi a Venezia in cerca di lavoro, ma tornò ben presto a Roma.

I convulsi avvenimenti del 25 ottobre 1867 sono efficacemente narrati nel suo recente volume ""Donne e Guerra. Dire, fare, subire" (Elsa di Mambro Editore, 300 pagine, euro 19,90) da Fiorenza Taricone, docente di Storia delle Dottrine politiche e di Pensiero politico e Questione femminile presso l’Università di Cassino.

"Nella fabbrica di Giulio Ajani alla Lungaretta, capo delle cospirazioni di Trastevere, quaranta patrioti fra cui l’Arquati, accompagnato dalla moglie e un figlio, si erano riuniti per organizzare una rivolta", riferisce la Taricone.

Purtroppo ci fu una spiata. L’edificio fu circondato da trecento tra zuavi e gendarmi. "I patrioti, asserragliati, presero le armi e Giuditta prestava aiuto soccorrendo i feriti, porgendo le munizioni. Quando, invece dell’intervento di altri patrioti sopraggiunsero rinforzi zuavi – prosegue - la sorte dei combattenti fu segnata e durò fino a che, mancando le armi, i soldati entrarono abbattendo la porta". Fu l’inferno: i cospiratori che non erano riusciti a fuggire vennero barbaramente trucidati. Giuditta, raggiunta da numerosi colpi d’arma da fuoco, vide il marito e il figlio Antonio, appena diciassettenne, trapassati da colpi di baionetta con tale foga da bucare il muro dietro di loro. I carnefici quindi si accanirono su di lei e la finirono penetrando con le lame più volte nel ventre che conteneva una nuova vita.

Terminato il massacro, gendarmi e zuavi si sedettero alla mensa preparata da Giuditta e brindarono alla vittoria, in mezzo a tutto quel sangue e ai cadaveri orrendamente trucidati.

La tragedia rimase a lungo nella mente dei romani. Ne fu testimone il patriota Alberto Mario, che si trovava a Roma il 25 ottobre del 1870, nella ricorrenza del terzo anniversario. "Fino dal mattino – ricordava - la casa Ajani n. 97 in via della Lungaretta era fastosamente addobbata a lutto con damaschi neri a fettoni fimbriati in oro. Nel mezzo dell’addobbo sorgeva un busto naturale di donna ancora giovane con aspetto e forme di matrona antica; aspetto e forme che ancora si ravvisano nelle donne trasteverine. Sotto al busto, un’iscrizione; e più sotto, altre tre. Corone di fiori di lauro pendevano intorno. Tutta la via della Lungaretta era cosparsa di foglie d’alloro. Da tutte le abitazioni sventolavano bandiere tricolori. La porta principale della casa Ajani stava aperta. La gente v’entrava, visitava gli appartamenti e ne usciva per una porta laterale che mette in altra contrada. Il giorno 25 non meno di settantamila persone furono a quella casa, ed altrettante nei giorni seguenti: Io ci andai due volte ed era una interminabile processione di pedoni e di carrozze, alcuna delle quali anche di principi romani. Al vespero del 25 accorsero in corpo l’associazione dei reduci delle patrie battaglie in colonna di cinquecento, le rappresentanze dei quattordici rioni portando bandiere a bruno e tre bande musicali che accrescevano la mestizia universale con musiche funebri".

La ressa era tale che Alberto Mario riuscì a entrare nella casa solo il 29 ottobre. Ne riportò un’impressione fortissima: "dove giacquero trucidati la Giuditta e il marito e il figlio sorgeva una croce in marmo vagamente scolpita, dono dei marmisti di Roma: sulla parete pendevano corone di fiori e di sempreverdi appese dai visitatori. Vedevansi nell’intonaco della parete i buchi fatti dalle baionette nel passar da parte a parte i corpi di quei gloriosi infelici e la parete spruzzata di sangue e larghe macchie sanguigne sul pavimento. Simili buchi e macchie e colpi di palla proprio al basso della parete presso al pavimento si vedevano anche nella stanza vicina. Nel mezzo della quale alzavasi un tumulo ove leggevasi i nomi di tutti caduti. Il colore tetro degli apparati, le corone, le iscrizioni, i segni orrendi di quella tragedia e l’immagine viva della donna sublime, stringevano il cuore".

di Cinzia Dal Maso e Antonio Venditti

SPECIALE RISORGIMENTO - SPECCHIO ROMANO

 

 

UN ARTISTA OLANDESE POSÒ IL PENNELLO PER IMBRACCIARE IL FUCILE

LE MEMORIE ROMANE DI JAN PHILIP KOELMAN

Nella primavera del 1844 un giovane pittore olandese, Jan Philip Koelman, raggiunse a Roma il suo maestro, Cornelis Kruseman. Non si era ancora fatto un nome come artista, ma era disinvolto, versatile e molto dotato. Nato a L’Aia il 10 marzo 1818, si presentava elegante e di belle maniere, come si vede nell’autoritratto ora nelle collezioni del comune natale, realizzato nel 1852, in cui appare sfarzosamente vestito con una mantellina nera dalla fodera color tabacco, camicia azzurra e cravatta romana. L’antico sarcofago sullo sfondo, oggi al Museo Nazionale Romano, permette di localizzare la scena nel parco della villa Celimontana, dove aveva preso dimora la principessa Marianna d’Olanda, figlia di re Guglielmo I. Ben presto i suoi quadri furono molto apprezzati, anche per i soggetti romantici e folkloristici: sono animati paesaggi di Genazzano o di Subiaco, ma anche soggetti di genere, come una ciociara addormentata o un gruppo di ragazzini che gioca su uno dei leoni alla base della scalinata dell’Aracoeli.

Nella città eterna c’era anche il fratello minore di Jan Philip, Jan Hendrik. Pittore anch’egli, specializzato in minuscoli ritratti su avorio o in piccole composizioni a olio o acquerello, una sorta di souvenir di lusso per stranieri in visita a Roma, aveva sposato una vedova di tredici anni più anziana di lui, la miniaturista Enrica Fioroni. Aveva il suo studio in un antico convento, in via dell’Olmata 86, vicino a Santa Maria Maggiore. Quando, nel 1851, gli sposi si trasferirono con il figlio Romolo nella casa che avevano acquistato nei pressi, anche Jan Philip andò ad abitare con loro.

I due fratelli, liberali e pieni di fervore, furono testimoni dei concitati avvenimenti che videro proclamare la Repubblica Romana e tentarne l’eroica difesa, fino al tragico epilogo. Si arruolarono nel corpo dei volontari e collaborarono attivamente alla resistenza alle truppe francesi presso Porta San Pancrazio.

Durante la sua lunga permanenza a Roma, Jan Philip Koelman aveva tenuto un diario che in un seguito rielaborò per quanto riguarda il suo periodo più interessante, quello cioè che va dal 1846 al 1851. Tali memorie furono pubblicate a puntate in una rivista settimanale liberale, "De Nederlandsche Spectator", in due serie: "In Roma", uscita nel 1863, e "La presa di Roma", del 1865. Nel 1869 furono pubblicati in due volumi dall’editore Thieme. L’edizione italiana, a cura di Maria Luisa Trebiliani, è del 1963, per l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano.

Nei due volumi, appassionanti come un romanzo, il pittore narrava con dovizia di particolari gli episodi che si erano svolti davanti ai suoi occhi attenti e interessati, dall’animatissimo carnevale degli artisti alle grotte di Cervara, all’illuminazione della cupola di San Pietro, alle cerimonie pontificali sotto Gregorio XIII o ai disordini che accompagnarono l’uccisione del ministro Pellegrino Rossi, il 15 novembre del 1848.

Particolarmente significativo il secondo volume, nel quale il pacifico pittore abbandonava il pennello per imbracciare il fucile in nome della libertà, affascinato come molti altri stranieri dalla figura carismatica di Garibaldi. Certo, non avrebbe mai rinnegato completamente la sua indole e se pure partecipò a qualche fatto d’arme, gli capitava sovente di mettersi ad eseguire schizzi e disegni nell’infuriare della battaglia. Di certo la sua sensibilità lo portò a cogliere particolari che sarebbero rimasti altrimenti ignorati. Straordinarie le descrizioni dei protagonisti dell’epopea garibaldina, come per Ugo Bassi, con la tonaca nera in groppa a un cavallo bianco, che assisteva feriti e morenti senza paura sotto il fuoco nemico o per Andres Aguyar, il moro di Garibaldi, Ercole di color ebano su un cavallo nero, che faceva pensare a un’ombra. Travolgenti le pagine dedicate all’assalto al casino dei Quattro Venti, trasformato in un cratere che vomitava fuoco e lanciava in alto un mare di scintille e tizzoni ardenti.

Colma di tristezza l’ultima parte delle memorie, nella quale si tratteggiava efficacemente il clima di angoscia e insicurezza che si respirava a Roma dopo l’entrata delle truppe francesi, tra furti, aggressioni e soprusi di ogni tipo.

Nel 1857 il Koelman tornò in patria e nel 1861 divenne professore di disegno all’Accademia di Belle Arti dell’Aia. Si dedicò alla scultura, erigendo il monumento celebrativo del cinquantenario della liberazione dell’Olanda dal dominio francese. Morì il 16 gennaio del 1893, a settantacinque anni.

di Cinzia Dal Maso

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OMAGGIO ALLA SCRITTRICE E GIORNALISTA AMERICANA AL FATEBENEFRATELLI

L’IMPEGNO DI MARGARET FULLER 
NELLA ROMA RISORGIMENTALE

Il 23 maggio 1810 nasceva a Cambridgeport, vicino Boston, Margaret Fuller, la scrittrice e giornalista americana impegnata per l’emancipazione femminile e in prima linea nell’organizzazione e nella gestione degli ospedali nel breve e glorioso periodo della Repubblica Romana del 1849. Un dagherrotipo del 1846 ce la mostra elegantemente vestita, con i capelli raccolti sotto la nuca in un chignon e l’espressione assorta.

Per celebrare il suo duecentesimo compleanno, si è tenuto il seminario"Margaret Fuller Ossoli, le donne e l’impegno civile nella Roma risorgimentale",nella Sala Assunta dell’Ospedale Fatebenefratelli, ossia in quella stessa corsia che la vide assistere i feriti senza distinzione di patria e di credo politico e religioso, ancor prima che nascesse la Croce Rossa.

Ha introdotto il seminario Mario Bannoni, in rappresentanza di Laurie James, presidente del Comitato Usa per il Bicentenario di Margaret Fuller Ossoli. Sono quindi seguiti i saluti di David Mees, addetto culturale dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America e di Jaroslaw Mikolajewski, direttore dell’Istituto polacco di Roma. Anna Maria Cerioni, della sovraintendenza ai beni culturali del comune di Roma, si è soffermata sulle memorie che la nostra città ha dedicato alle donne dell’epoca risorgimentale: dalla targa sulla dimora di Anita e Giuseppe Garibaldi, in via delle Carrozze 59, ai busti di Colomba Antonietti sul Gianicolo e di Giuditta Tavani Arquati in via della Lungaretta, alla targa apposta a 150 anni dalla morte di Margaret Fuller sulla facciata del palazzo dove abitò, in piazza Barberini 2.

L’intervento di Cristina Giorcelli, direttore del Dipartimento di Studi Euro-americani dell’Università degli Studi di Roma Tre, ha riguardato "Margaret Fuller, un’intellettuale e una realizzatrice" e quello di Marco Severini, docente di Storia del Risorgimento presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Macerata, "Novità storiografiche sulla Repubblica Romana".

Quindi Enrico Luciani, presidente dell’Associazione A. Cipriani e direttore del sito www.comitatogianicolo.it, ha illustrato la "Difesa di Roma del 1849. Memoria e territorio".Antonio Santoro, Brigadiere Generale Medico della direzione generale della sanità militare e docente presso l’Università di Firenze, ha parlato di "Operatività sanitaria militare nel 1849", insieme con Federica Dal Forno.

Ginevra Conti Odorisio, ordinaria di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Roma Tre, ha ricordato "Le donne del 1848", a cominciare da Harriet Martineau, che seppe porre l’accento sull’incompiutezza della democrazia americana, in cui permaneva la schiavitù dei neri e le donne obbedivano a leggi che non avevano contribuito a fare, per proseguire con Cristina Trivulzio di Belgiojoso, che dedicò alla causa italiana anche i suoi beni e sostenne per prima il diritto alla neutralità dei feriti.

L’ultimo intervento è stato quello di Fiorenza Taricone, dell’Università degli Studi di Cassino, che si occupa da anni del difficile nesso tra donne e guerra, e ha riguardato "Il patriottismo femminile nel Risorgimento". La studiosa ha ricordato le parole di Vittorio Cian:"bisogna che noi signori uomini abbiamo coraggio di confessare che, senza volerlo, solo spinti dal nostro istinto e dalle nostre abitudini di maschi sopraffattori, nello scrivere la storia abbiamo fatto e continuiamo a fare un po’ troppo la parte del leone... Bisogna che abbiamo pure il coraggio di rivederla questa storia scritta da noi e di riconoscere col fatto che, quanto più si estendono e si approfondiscono le indagini sul nostro Risorgimento, più vediamo balzar fuori figure di donne". Il Risorgimento e la storia della Repubblica Romana, poi, ha continuato Fiorenza Taricone, ci danno modo di avvicinarci a un concetto che c’è sempre stato, quello del travestitismo, pervenutoci come atto d’amore. "Non dico che Colomba Antonietti non si sia vestita da uomo per stare vicino al marito, ma dico che attraverso l’amore privato è passato l’amor patrio. L’amore è stato l’occasione per costruire un concetto di cittadinanza attiva".

In conclusione, le ricerche e gli approfondimenti di Mario Bannoni su "Gli anni italiani di Margaret Fuller", che dopo la caduta della Repubblica Romana salpò per gli Stati Uniti. A poca distanza dal porto di New York la nave colò a picco e la Fuller perse la vita, insieme con il marito, il conte Giovanni Angelo Ossoli, e il figlioletto.

di Antonio Venditti e Cinzia Dal Maso

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SPIRÒ ALL’OSPIZIO DEI PELLEGRINI IL 6 LUGLIO DI 160 ANNI FA

Gli ultimi giorni di Goffredo Mameli

In piazza della Trinità dei Pellegrini, nel rione Regola, accanto alla chiesa omonima, sorse nel 1625 un grandissimo ospizio, costruito per offrire assistenza ai fedeli che accorrevano a Roma durante il Giubileo di quell'anno. Nel refettorio nobili e cardinali lavavano i piedi dei pellegrini. Nel 1940 l’ospizio fu in gran parte demolito e oggi ospita alcuni uffici. La facciata, a due piani, ha finestre semplicemente riquadrate e un portale con ai lati due finestre architravate con davanzali e mensoloni sottostanti e due cassette marmoree per elemosine. Sopra la finestra a sinistra del portale, una targa marmorea ricorda che "In questo ospizio Goffredo Mameli e molti altri valorosi morirono di ferite a difesa di Roma per la libertà d'Italia  nell'anno MDCCCXLIX".

Infatti, durante i durissimi scontri che decretarono la fine della Repubblica Romana, l’ospizio era stato trasformato in ospedale militare. Il 3 giugno, durante i combattimenti sul Gianicolo, l’autore dell’Inno d’Italia fu ferito inavvertitamente da un commilitone, un bersagliere di Luciano Manara, alla gamba sinistra. Lo portarono per una medicazione e un breve ricovero all’ospizio dei Pellegrini. Ma fu curato tardi e male. Il medico Agostino Bertani non lo vide che 16 giorni dopo, quando la situazione si era tremendamente aggravata. Lo assisteva la bella veneziana Adele Baroffio, innamorata di lui, ma gli fu vicino fino alla fine anche la principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, che tanto si prodigò per l’organizzazione dei soccorsi ai feriti di quei giorni. A quanto pare, durante le prime cure, nella concitazione del momento, era stato estratto dalla gamba di Goffredo un proiettile, ma vi era stato dimenticato lo stoppaccino, ossia la garza contenente la polvere da sparo, che avrebbe provocato la cancrena. Quando la Belgiojoso se ne accorse, le sue urla si udirono risuonare per tutta la corsia. Fu decisa l’amputazione della gamba, ma nemmeno questa riuscì a salvare il giovane poeta, che divorato dalla febbre a volte recitava nel delirio i versi di "Fratelli d’Italia". Come riferisce lo storico inglese George Macaulay Trevelyan, nelle ultime notti la principessa gli leggeva Dickens alla fioca luce di una candela. Il 6 luglio di 160 anni fa, spirò tra le braccia della Belgiojoso. Aveva 22 anni.

di Cinzia Dal Maso

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LA SUA DIVISA DA GENERALE È ESPOSTA A CASTEL SANT’ANGELO

FRANCESCO STURBINETTI, SENATORE DI ROMA


Dal lato del giretto scoperto di Castel Sant’Angelo che si affaccia con splendida vista sulla basilica di San Pietro, nell’Armeria Superiore, è stata sistemata una piccola porzione dell’antica collezione d’armi del Castello che dal 1925, anno di costituzione del "Museo Artistico e Militare", è andata progressivamente crescendo.

In una vetrina della prima sala, dedicata all’esercito pontificio e a quello italiano dell’Ottocento, è esposta l’uniforme blu di Francesco Sturbinetti, che fu Senatore di Roma e generale della Guardia Nazionale durante la Repubblica Romana del 1849.

Nato a Roma nel 1807, avvocato della Sacra Rota, aveva preso parte al movimento per le riforme sotto Pio IX. Durante il primo ministero laico dello Stato Pontificio fu prima ministro dei Lavori Pubblici, poi della Giustizia.

Dopo la caduta della Repubblica Romana, fu escluso dall’amnistia pontificia. L’aver votato, nell’assemblea costituente del ’49, l’abolizione del potere temporale dei Papi gli costò l’esilio. Poté tornare in patria solo il 7 settembre del 1857, con l’imposizione però di soggiornare a Frascati. Il 7 novembre dello stesso anno fu ricevuto in udienza da Pio IX, che si mostrò cordiale e affettuoso. Sturbinetti morì a Frascati nel 1865, ad appena cinquantotto anni e fu sepolto a Roma, nella navata destra della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. La lapide ricorda il perdono pontificio: "Abreptus et exsul studio rerum novarum anno MDCCCXLIX, reditus veniam a pontifice maximo consecutus est".

di Annalisa Venditti

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CON LA SUA ARTE FU IL PRINCIPALE INTERPRETE DELL’EPOPEA RISORGIMENTALE

IL PITTORE - SOLDATO GEROLAMO INDUNO

Gerolamo Induno, fratello minore di Domenico, era nato a Milano il 13 dicembre 1825. Aveva frequentato l’Accademia di Brera dove, dal 1839 al 1846, era stato allievo di Luigi Sabatelli.

Fin dal 1845 aveva esposto i suoi primi dipinti alla mostra braidense: studi dal vero, alcuni ritratti e una Scena dai Promessi Sposi.

Dopo aver partecipato ai moti antiaustriaci del 1848, si era rifugiato con il fratello ad Astano, in Svizzera, quindi si trasferì a Firenze, dove si arruolò come volontario sotto il comando del generale Giacomo Medici, con il quale, nel 1849, partecipò alla difesa di Roma assediata dai francesi del generale Oudinot, eseguendo molti schizzi e scene riprese dal vero.

Definito da Garibaldi uno dei più "intrepidi e valorosi combattenti di Roma", Gerolamo Induno fu impegnato nell’occupazione del Vascello. Il 22 giugno, per ordine di Garibaldi, due compagnie del generale Medici tentarono da villa Spada di impadronirsi della casa Barberini, all’interno di villa Sciarra, nel luogo oggi intitolato al volontario belga Adolfo Leduq. I patrioti riuscirono a penetrare nella casa, ma dovettero ritirarsi dopo una furiosa mischia nel cortile e nelle stanze. Durante quell’operazione, in cui perse la vita Giacomo Venezian, Gerolamo Induno fu gravemente ferito da 27 colpi di baionetta e cadde da una terrazza. Due commilitoni lo raccolsero in fin di vita ed Enrico Guastalla lo portò sulle sue braccia. Fu curato all’ospedale dei Fatebenefratelli, diretto dalla giornalista americana Margaret Fuller Ossoli. Una volta guarito, fu nominato sottotenente e rimase qualche tempo a Roma. Grazie alla protezione del conte Giulio Litta, riuscì a tornare a Milano e negli anni che seguirono espose a Brera alcune opere di tema risorgimentale che ricordavano gli eventi che lo avevano visto protagonista a Roma, come "La difesa del Vascello", "Porta San Pancrazio dopo l’assedio del 1849" o "Trasteverina colpita da una bomba".

Dal 1854 al 1855 aveva partecipato alla campagna di Crimea, militando nel corpo dei bersaglieri di Alessandro La Marmora in qualità di pittore-soldato ed eseguendo disegni, studi e resoconti per immagini. Al ritorno in patria quegli schizzi diventarono quadri pieni di sentimenti patriottici, molto apprezzati dalla critica. Tra questi, "La battaglia di Cernaia", che gli era stata commissionata dallo stesso Vittorio Emanuele II.

Nel 1855 ottenne un grande successo all’Esposizione Universale di Parigi. In seguito espose alcuni dipinti di vario tipo, dalla veduta al ritratto, sia a Milano che a Firenze.

Nel 1859 si arruolò come ufficiale garibaldino dei Cacciatori delle Alpi, continuando a dipingere e a prediligere i temi patriottici e confermandosi come il principale interprete dell’epopea risorgimentale. Alle rappresentazioni di tono aulico, come "La battaglia di Magenta", alternò soggetti più intimi o di genere: "Un grande sacrificio" (l’addio della madre del garibaldino), "La partenza del coscritto", "Triste presentimento". Famoso fu "La battaglia della Cernaia", acquistato da Vittorio Emanuele II. Molto apprezzati anche il "Legionario garibaldino alla difesa di Roma" o "Episodio dell’assedio di Roma del 1849", forse realizzato alcuni anni dopo.

Il 5 maggio del 1860 Garibaldi salpava da Quarto per la Sicilia. Anche se Induno, dopo tante battaglie, non era fisicamente tra i Mille, partecipò idealmente all’impresa traducendo in pittura le cronache dei giornali e i racconti dei reduci. In un’atmosfera velata dal rimpianto, anche l’arte storica o celebrativa si apriva al sentimento, come ne "L’imbarco dei Mille a Quarto", dove l’attenzione si sofferma sugli episodi del garibaldino che bacia il figlio o della moglie che piange per la partenza del marito.

Negli anni Sessanta dell’Ottocento era ancora impegnato in dipinti celebrativi, da "L’ingresso di Vittorio Emanuele II a Venezia" a "La morte di Enrico Cairoli a Villa Glori", ma prese parte anche a grandi imprese decorative, come le Allegorie di Firenze e di Roma e nella rinnovata stazione Ferroviaria di Milano o il sipario del teatro di Gallarate. Intanto la sua arte subiva un’evoluzione verso una pittura dalla pennellata quasi virtuosistica e con soggetti di gusto neosettecentesco, esemplificata da "La partita a scacchi" e "Un amatore di antichità".

Dopo una lunga malattia, morì a Milano il 19 dicembre del 1890.

di Cinzia Dal Maso

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Da schiavo di Montevideo a luogotenente dell’Eroe dei due Mondi

Andrea Aguyar, il Moro di Garibaldi

Tra gli eroi caduti nel 1849 nella strenua difesa della Repubblica Romana contro i francesi del generale Oudinot, spicca una figura alquanto singolare; è Andrea Aguyar, il moro di Garibaldi. Non cercatene l’immagine tra i busti del Gianicolo, perché non c’è. Ben poche tracce restano del suo passaggio, breve ma significativo, nella Città Eterna: il suo nome figura nell’elenco dei patrioti sepolti nell’ossuario garibaldino e gli è dedicata la rampa che collega Monteverde con viale Trastevere, la scalea Andrea il Moro.

Era nato a Montevideo da genitori africani schiavi come lui. Era stato liberato con la proclamazione della repubblica uruguayana e da allora non aveva voluto più lasciare Garibaldi, che lo nominò luogotenente del suo Stato Maggiore. Andrea non sapeva scrivere, ma montava a cavallo come pochi e lasciava tutti senza parole quando faceva roteare in aria il lazo con cui riprendeva, come un gaucho, i cavalli disarcionati che fuggivano nella battaglia. Il suo aspetto erculeo lo faceva sembrare un principe di ebano, con denti bianchissimi che scopriva ridendo. Era sempre avvolto in un gran mantello nero e armato di lancia con una banderuola rossa.Quando Garibaldi si fermava a riposare, Andrea toglieva la sella al suo cavallo, che trasformava in un letto per l’Eroe, posto sotto una tenda improvvisata piantando in terra la sua spada e la sua lancia e gettandovi sopra il mantello. Non conosceva la paura e più di una volta salvò la vita a Garibaldi. Solo in un’occasione forse il suo coraggio non sarebbe bastato a difendere l’eroe. Nella battaglia di Velletri, Garibaldi dominava il combattimento dall’alto di una vigna, quando si accorse che i suoi lancieri, spaventati, perdevano terreno. Scese precipitosamente a cavallo dalla collina per andare a rincuorarli, seguito da Aguyar, ma il suo cavallo inciampò, lo sbalzò di sella e gli rovinò sopra, intrappolandolo. Fu un attimo: molti soldati borboni accorsero per farlo prigioniero, ma dalle siepi uscì una nuvola di quei ragazzini tra i dodici e i sedici anni che formavano la cosiddetta brigata dei monelli. Tutti insieme, come indiavolati, si gettarono sui soldati e maneggiando abilmente le loro baionette, li costrinsero alla fuga.

Quattro giorni dopo l’arrivo di Anita a Roma, Andrea fu colpito da una bomba nei pressi di Santa Maria in Trastevere. Grondando sangue, riuscì a gridare: "Viva le repubbliche d’America e di Roma!" Fu portato nella vicina Santa Maria della Scala, a quel tempo adibita a ospedale, dove spirò.

di Cinzia Dal Maso

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Durante il suo esilio fiorentino sposò la pittrice Ida Botti

Felice Scifoni, letterato e patriota

Felice Scifoni era nato a Roma nel 1802. Divenuto notaio, si affiliò alla Carboneria. Fu socio dell’Accademia Tiberina, che aveva tra i fondatori Giuseppe Gioachino Belli, di cui divenne amico. Fu arrestato per aver partecipato, in Romagna, ai moti del 1831. Due anni dopo fu costretto ad andare esule a Firenze, dove partecipò alla stesura del "Dizionario biografico universale" dell’editore Passigli. Qui sposò Ida Botti (1812 – 1844), una valente pittrice allieva di Giovanni Salvagni, specializzata nei generi dei ritratti e delle nature morte. Ritrasse alcune nobildonne, tra cui Maria Mercede di Bonilla e Matilde Bonaparte, figlia di Gerolamo Re di Vestfalia, fratello di Napoleone, consorte dal 1841 del principe e collezionista Anatolio Demidoff. Il suo autoritratto è a Palazzo Pitti.

Nel 1846, grazie all’amnistia di Pio IX, Scifoni poté tornare nella sua città. Nel 1849 fu Deputato alla Costituente romana e il suo sostegno alla Repubblica fu così deciso che dopo la restaurazione del governo pontificio dovette andare in esilio in Francia. Non ci rimase molto, a causa della sua ferma opposizione a Napoleone III. Si trasferì a Torino e collaborò con Maurizio Guigoni e con la sua Società editrice italiana, pubblicando opere di esponenti democratici di spicco.

Nel 1866, sebbene versasse in ristrettezze economiche, rifiutò una cattedra universitaria per non prestare giuramento alle istituzioni monarchiche. Infatti, ancora nel 1876 si dichiarava mazziniano.

Tornò a Roma dopo la breccia di Porta Pia. Nel 1871 scrisse una storia dell’Italia antica e, dopo il 1873, ottenne l'ufficio di bibliotecario del municipio.

Morì nella sua città nel 1883.

di Cinzia Dal Maso

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