Sia il
Nibby che il Mommsen ritenevano che l’ara dovesse essere posta in
relazione con il cosiddetto Ajus locutium - la voce che parla -
ossia con l’antico altare dedicato "supra aedem Vestae in infine
Nova via" alla divinità sconosciuta che in quella parte del Foro, di
notte, attraverso una misteriosa voce aveva preannunciato ai romani,
nel IV secolo a. C., l’arrivo dei Galli in città.
Secondo
il Mommsen, però, il vocabolo "restituit" avrebbe potuto
sottintendere che quest’ara ne ricordava un’altra più antica, in
peperino, che forse non era nemmeno la prima. Per lo studioso
tedesco, inoltre, il dedicante sarebbe stato Caio Sestio Calvino,
figlio dell’omonimo console del 124 a.Cr., il quale contese la
Pretura a Glaucia nel 100 a.C.
Altri
studiosi erano di diverso avviso. L’archeologo Rodolfo Lanciani, ad
esempio, pensava che l’ara di Caio Sestio Calvino non potesse essere
quella relativa all’Ajus locutium, che doveva trovarsi dietro al
tempio di Vesta, quindi molto lontano dal luogo del rinvenimento.
Considerando pertanto le numerose testimonianze storiche secondo cui
i romani non attribuivano né nome e né sesso a divinità tutelari dei
luoghi di grande importanza storica e religiosa, Lanciani pensava
che l’ara poteva essere stata dedicata a un "Genius loci", ossia a
un genio del luogo. Tra le testimonianze più importanti relative a
tale divinità è l’invocazione incisa nelle tavole dei Fratelli
Arvali: "Sive deo sive deae in cuius tutela hic lucu lucusque est".
Sappiamo che al Genio di Roma era stato consacrato in Campidoglio
uno scudo su cui si leggeva: "Genio Urbis Romae sive mas sive femina".
L’ara
in questione rimase a lungo nel luogo del ritrovamento, esposta alle
intemperie e agli altri agenti atmosferici, utilizzata come sedile
dai frequentatori del Palatino. Finalmente ora fa la sua bella
figura in una delle sale dell’Antiquarium del Palatino.