Quando
dieci anni fa ho iniziato a studiare l’arte nei lager degli ufficiali italiani,
internati in Germania dopo l’8 settembre del 1943, non avrei mai immaginato di
poter stringere la mano a uno dei protagonisti della mia indagine. Sia per ovvie
questioni anagrafiche, sia perché avevo in mio possesso soltanto una lista di
cognomi, senza altre indicazioni. E’ solo merito del web se, un giorno, presa la
cornetta del telefono, mi sono ritrovata a parlare con Mauro Masi, pittore
lucano, romano d’adozione. Un intellettuale di spessore, nonostante la
semplicità dei suoi modi, conditi da una simpatia travolgente. "Mi scusi,
parlo con il Maestro Masi?" – esordivo emozionata. "Sì, sono io!" –
mi rispondeva dall’altra parte una voce squillante e solare che difficilmente
avrei potuto attribuire ad un uomo che si avvicinava alla novantina. Mi
presentavo. Dall’altra parte percepivo attenzione e curiosità e la benché minima
forma di diffidenza. Mauro Masi era così. Poi la domanda che mi aveva portato
sino a lui: "non so se sbaglio... Ma lei è stato internato in Germania?".
"Sì. Prima in
Polonia, a Biala Podlaska, poi in Germania" – mi
rispondeva. Insomma, era proprio lui l’ufficiale-artista che stavo cercando. Il
resto dell’intervista veniva rimandato a un incontro, fissato a casa sua. Nello
studio, una fucina piena di tele, colori e bozzetti avevo la possibilità di
ammirare l’arte di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e alla
sperimentazione sulla forma e sul colore. Il talento creativo di chi ha amato il
suo lavoro a tal punto da non poterne fare a meno. Venivo rapita dalle sue tele
di sacco, che raccolgono la pastosità della materia in un modo unico.
Soprattutto nel lager l’arte rappresentò per Masi la libertà dell’anima, ma
anche un modo per ricevere dai tedeschi, in cambio di un disegno, qualcosa in
più da mangiare. Ricordava moltissimo di quell’esperienza lontana e la
ripercorreva per me, sul filo della memoria. Così da quel giorno cominciarono ad
affiorare da casse e bauli le sopravvissute carte del suo internamento, schizzi
a matita che descrivevano con l’intensità dell’attimo catturato la vita nelle
baracche, le adunate, la fame e le altre privazioni. Toccavo quei disegni,
realizzati su povera carta, come delle reliquie. Con lui che mi diceva: "non
ti preoccupare... hanno fatto un viaggio incredibile... sono indistruttibili!".
Mi parlava de "La voce di San Gerardo", un giornale interamente
realizzato a mano, durante la prigionia, da altri ufficiali lucani come lui, cui
aveva collaborato per le illustrazioni. Non sapeva più dove fosse. Aveva solo
delle sbiadite fotocopie in bianco e nero. Promisi di trovarla. Per molto tempo
le mie ricerche si concentrarono a Potenza e invece La voce di San Gerardo
si trovava a Roma, poco distante da casa mia: il destino?
Ora che, da quattro
giorni, Mauro non c’è più mi ostino a pensare che di lui sopravvivono per sempre
i beni più preziosi: la memoria condivisa della prigionia, la forza
intellettuale, l’universo creativo, ovvero le sue opere. Ma questo
egoisticamente non mi basta. Perché già mi manca la sua amicizia.