Renato Mammucari svela tutti i segreti del movimento artistico
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I XXV della Campagna
Romana,
tra tavolozze e buona cucina
La
sera del 24 maggio 1904, al "Pozzo di San Patrizio", una trattoria sulla via
Nomentana, alcuni artisti - diversi per età, provenienza e scuola - si unirono
spontaneamente costituendo il primo nucleo di un sodalizio che avrebbe dedicato
arte e passione alo studio della Campagna romana. Il gruppo dei fondatori era
costituito per lo più da pittori provenienti dalla società "In Arte Libertas",
attiva tra il 1890 e il 1910 con l’intento di opporsi alla pittura di maniera,
ma anche al paesaggio eseguito negli studi: Enrico Coleman, Onorato Carlandi,
Ettore Ferrari, Giuseppe Cellini, Alessandro Morani, Paolo Ferretti, Cesare
Biseo e Giuseppe Ferrari, Edoardo Gioja e il conte Napoleone Parisani. Nella
riunione furono nominati soci Giulio Aristide Sartorio, Arturo Noci, Cesare
Pascarella, Giovanni Costantini, Alessandro Battaglia, Lorenzo Cecconi e
Adalberto Cencetti.
Dopo lunghe e
animate discussioni fu scelto il nome definitivo del gruppo, su suggerimento del
Carlandi: "I XXV della Campagna romana".
Come si legge nel
poderoso volume curato da Renato Mammucari (1904 – 2004. "I XXV" della Campagna
Romana, LER Editrice, 542 pagine, con numerosi contributi critici di esperti del
settore), i soci non avevano alcuna spinta programmatica, "se non quella di
guardare avanti senza però rinnegare il passato". Mammucari descrive con dovizia
di particolari il rito domenicale del Gruppo. Il segretario convocava con un
invito a stampa i soci, che partivano con "cavalletti, ombrelloni e tavolozze in
spalla – tanto da essere scambiati in più di un’occasione per cacciatori,
civettari, pescatori, cinematografari intenti a girare qualche esterno di un
film – per una determinata località della Campagna romana, alla ricerca di
motivi ispiratori direttamente dal vero e nella loro vera luce". Singolare era
l’abbigliamento di Giulio Aristide Sartorio, i cui smaglianti pantaloni bianchi
infilati negli stivaloni di bulgaro lo facevano somigliare più a un domatore di
circo o a un ufficiale napoleonico in ritardo che a un pittore. Arrivati nella
località prefissata, che poteva essere Ponte Mammolo, Settebagni, Due Ponti,
Settecamini o qualsiasi altro posto da cui si potesse scorgere il Cupolone, si
sparpagliavano alla ricerca del soggetto da ritrarre. "Dopo un breve istante di
esitazione – spiega Mammucari – per esaminare il cielo e la linea
dell’orizzonte, cominciavano a peregrinare da un posto all’altro a seconda del
taglio prescelto, così che il quadro risultasse originale senza tuttavia falsare
la realtà della luce che si voleva dare alla composizione che, se presa
controsole, poteva dissolvere i particolari facendo però più suggestive le zone
in ombra e i chiaroscuri, e dell’atmosfera che si voleva rendere; quindi, ben
infisso per terra il cavalletto, con la scatola dei colori ad olio o ad
acquerello, si mettevano alacremente al lavoro in quanto l’opera doveva essere
terminata in ogni caso prima dell’ora di pranzo". Una bella mangiata, infatti,
doveva essere la degna conclusione di ogni uscita domenicale. Il "guitto", cioè
il segretario, doveva assicurarsi che nella località scelta per le sue bellezze
naturali ci fosse anche un’osteria a buon mercato. Per questo, avverte Mammucari,
alcuni angoli della Campagna romana, "pur deliziosi e suggestivi, non vennero
consacrati all’arte dei XXV" perché nei dintorni mancava un’osteria decente.
Prima del rientro a Roma i quadri appena realizzati venivano messi in mostra in
una sala di esposizione di fortuna, che poteva essere un cortile, un carro
abbandonato su un’aia, una stalla o una cantina. Si poteva così vedere subito
come, davanti allo stesso soggetto, ognuno avesse scelto una diversa soluzione
pittorica. Il lavoro ritenuto migliore inizialmente veniva premiato con il
rimborso del viaggio e delle spese. In seguito si istituirà un premio simbolico:
un ferro di cavallo che – di settimana in settimana – passava da un vincitore
all’altro.
"E’ triste dover
rilevare – prosegue Mammucari – che la critica ufficiale sino ad ora si sia
completamente disinteressata di questo gruppo di pittori, perché la società dei
XXV ha rappresentato se non una scuola, perlomeno un vasto movimento pittorico
teso alla riscoperta di quelle sensazioni che solo un tramonto romano sapeva
infondere in un artista e che solo ritraendolo dal vero e nella sua vera luce,
con le giuste tonalità, chiaroscuri e penombre, si era in grado di trasferirlo
su una tela senza alterarlo o falsarlo, riproducendo non solo un angolo sperduto
o un anfratto della Campagna, ma anche e soprattutto l’atmosfera che lo
permeava".
di
Antonio Venditti
22
giugno 2011 |
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