Ricorre
oggi l’anniversario dell’episodio più tragico e al tempo stesso più glorioso
della storia delle Guardie Svizzere al servizio del Pontefice. Esattamente 481
anni fa, il 6 maggio del 1527, la milizia elvetica istituita da Giulio II si
immolò per permettere a Clemente VII di rifugiarsi a Castel Sant’Angelo
attraverso il Corridore di Borgo, sfuggendo alla furia omicida dei
lanzichenecchi luterani, degli spagnoli e degli italiani che appartenevano alle
truppe di Carlo V.
Fin dal mattino, dal suo quartiere
generale sul Gianicolo, presso il convento di S. Onofrio, il capitano generale
della milizia imperiale Carlo di Borbone aveva dato il via agli assalti. Giunto
alla Porta Torrione favorito da una fitta nebbia, all’altezza dell’attuale Porta
Cavalleggeri, mentre tentava di scalare le mura, fu colpito a morte da
un’archibugiata al basso ventre (nella foto a sinistra, l’episodio in
un’incisione del Cock). In seguito Benvenuto Cellini si vantò di essere stato
proprio lui ad esplodere quel colpo mortale. Ciò nonostante, i mercenari
spagnoli riuscirono a sfondare la Porta, mentre i lanzichenecchi invadevano
Borgo Santo Spirito e San Pietro. Le 189 Guardie Svizzere rimasero compatte ai
piedi dell'obelisco vaticano, all’epoca ancora sulla sinistra della Basilica,
nei pressi del Campo Santo Teutonico e della Sacrestia, resistendo
disperatamente per sei ore. Si salvarono solo i quarantadue elvetici che
scortarono il Pontefice dal Palazzo Apostolico fino a Castel Sant’Angelo. Gli
altri, soldati e ufficiali, furono trucidati, riuscendo però ad eliminare 800
avversari. Il comandante Kaspar Röist, rimasto ferito, verrà ucciso dagli
spagnoli a casa sua, davanti agli occhi atterriti della moglie Elisabeth
Klingler. Non erano stati però i soli a donare la loro vita nella vana
resistenza agli invasori. Anche i romani, in quell’occasione, si coprirono di
gloria. Come narra Gregorovius, "le genti de’ Rioni Ponte e Parione, sotto gli
ordini di Camillo Orsini, difendevano quel tratto di mura, e il vecchio
cardinale Pucci era con loro a incoraggiarli: si batterono disperatamente, ma
furono uccisi e dispersi. Di mille uomini del quartiere Parione rimasero in
piedi circa cento; la compagnia di Lucantonio cadde tutta, tranne dieci soli; il
capitano Giulio di Ferrara fu ammazzato con tutti i suoi".
Memorabile
è rimasta la disperata fuga del Papa attraverso lo stretto corridoio
fortificato, con l’abito bianco coperto dal mantello violaceo di Paolo Giovio,
affinché non fosse un facile bersaglio per i nemici, giunti ormai sotto il muro
leonino, i cui colpi di archibugio si vedono ancora sulle pareti della torre
scalaria. Insieme con Clemente VII fuggì una buona parte della sua corte e si
calcola che trovarono rifugio nel Castello circa tremila persone.
La città, però, rimase in balìa
della soldataglia lanzichenecca e spagnola, che si dedicò ai più aberranti
soprusi, furti, sacrilegi e massacri.
Si pensa che potessero essere
uccise dodicimila persone, mentre il bottino sarebbe ammontato alla strabiliante
somma di dieci milioni di ducati. Non furono risparmiate nemmeno le tombe dei
Papi, manomesse per depredarle dei loro tesori. Nelle Stanze di Raffaello, sul
dipinto raffigurante "La disputa del santissimo Sacramento", fu inciso il nome
di Lutero con la punta di una spada.
Preziose e venerate reliquie
furono distrutte, le carte degli archivi stracciate, distruggendo di fatto quasi
tutta la storia medioevale della città, mentre le suppellettili delle chiese in
argento e oro vennero asportate. Come scriveva Francesco Guicciardini al duca di
Firenze Cosimo II, i Lanzi "continuamente, come furie infernali, or qua or là
scorrendo, con spaventevole furore qualunque luogo sacro cercavono, e in questo
palazzo e in quello, come a loro piaceva, entravono, e dove trovavono
resistenza, ferocemente combattevono, e non lo potendo avere, vi attaccavono il
fuoco: in modo che non poche ricchezze né poche persone, per non volere vive
venire in tanto efferate mani, furono arse e consumate. Oh quanti cortigiani,
quanti gentili e delicati uomini, quanti vezzosi prelati, quante devote monache,
quante vergini, quante pudiche matrone con li loro piccoli e figliuoli vennono
preda di tanto crudeli nazioni! Oh quanti calici, croci, figure e vasi di
argento e d'oro, furono con furia levati dagli altari, sacrestie e altri luoghi
devoti, dov'erono riposti! Oh, quante rare e venerande reliquie, coperte d'oro e
d'argento, furono con le mani sanguinose e micidiali spogliate, e con derisione
della religione buttate per terra! La testa di San Piero, di San Pagolo, di
Sant'Andrea e di molti altri Santi, il legno della Croce, le Spine, l'Olio
Santo, e insino all'ostie consacrate, erono da loro in quella furia
vituperosamente calpeste".
Quando, nel dicembre del 1527,
Clemente VII fu costretto ad arrendersi, dovette accettare pesanti condizioni:
abbandonare le fortezze di Ostia, Civitavecchia e Civita Castellana, cedere le
città di Modena, Parma e Piacenza e pagare quattrocentomila ducati. I
prigionieri furono liberati a caro prezzo. La guarnigione papale venne
sostituita da quattro compagnie di tedeschi e spagnoli; la Guardia Svizzera fu
soppressa e le subentrarono duecento lanzichenecchi. Il Papa chiese ed ottenne
che fossero inclusi nel nuovo corpo di Guardia gli svizzeri sopravvissuti, ma
solo dodici di essi accettarono, tra i quali Hans Gutenberg di Coirà e Albert
Rosin di Zurigo; gli altri preferirono non avere niente a che fare con i
lanzichenecchi.
Il 6 maggio di ogni anno le
Guardie Svizzere, in uniforme di gala, ricordano il sacrificio dei loro
predecessori con il solenne giuramento delle nuove reclute: una suggestiva
cerimonia che si celebra nel Cortile di S. Damaso, alla presenza di personalità
religiose del Vaticano, di rappresentanti politici e militari della
Confederazione Svizzera, parenti, amici e simpatizzanti.
Il giuramento di fedeltà al
Pontefice è letto ad alta voce dal cappellano della Guardia, quindi le nuove
reclute, chiamate per nome, si fanno avanti e ciascuna, con la mano sinistra
sulla bandiera e la destra alzata con tre dita aperte, quale simbolo trinitario,
conferma e giura "di osservare fedelmente, lealmente e onorevolmente tutto ciò
che in questo momento mi è stato letto. Che Dio o i suoi santi mi assistano".