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Suggestive rovine e tombe antichissime immerse nel verde

Al Parco di Veio a parlare è la storia

di Cinzia Dal Maso

 

Il Parco di Veio unisce a un paesaggio di grande rilevanza naturalistica la presenza dei resti di una importante città etrusca, la più vicina a Roma, da cui distava appena 17 chilometri. In epoca arcaica, apparteneva a Veio la sponda destra del Tevere, comprendente il Gianicolo, il Trastevere, il Vaticano e Monte Mario, per cui il conflitto con Roma era inevitabile. Nel 396 a.C., dopo dieci anni di assedio, Veio cadeva nelle mani di Furio Camillo, che la distruggeva e trasferiva a Roma il culto di Giunone Regina. La città non risorse più e nel I sec.a.C. i poeti latini cantavano la malinconia che emanava dai luoghi ove erano sorti splendidi templi e dimore di potenti re, ridotti a pascoli. In epoca romana fu sede di un modesto municipio, dove fu scoperto il colonnato ionico oggi sulla fronte di palazzo Wedekind a piazza Colonna.

Sull’ampio e scosceso altopiano tufaceo lambito dal Cremera e dal Fosso della Mola, presso l’odierna frazione di Isola Farnese, ormai regna una pittoresca solitudine.

Gli stanziamenti villanoviani, cui si riferiscono numerose necropoli della zona, testimoniamo una fiorente economia già tra l’VIII e il VII secolo a. C. Non molto rimane della città etrusca, circondata da una bella cinta di mura in blocchi di tufo e terrapieno, realizzata alla fine del V secolo a. C., quando, a causa della minaccia crescente di un attacco romano, le difese naturali della città non sembrarono più sufficienti. L’acropoli, sull’estremità meridionale del pianoro, in località Piazza d’Armi, era protetta da mura indipendenti, realizzate con tecnica a casematte.

Veio era anche un importantissimo nodo viario e dalle sue numerose porte uscivano le strade che la mettevano in comunicazione con le città vicine. Sull’acropoli restano le fondamenta di un tempio, forse quello dedicato alla divinità che i Romani identificarono con Giunone Regina.

Le scoperte più sensazionali sono avvenute nel 1916, poco al di fuori delle mura, in località Portonaccio. Qui Giulio Qairino Giglioli rinvenne un grande santuario, detto dell’Apollo, ma probabilmente dedicato a Minerva. Circondato da un recinto, comprendeva un tempio, un’area sacra con altare, fosse per i sacrifici ed una grande piscina. Il tempio era a tre celle, secondo il tipo etrusco descritto da Vitruvio, o, più semplicemente, con un’unica cella affiancata da due "alae". Intorno alla fine del VI a.C. fu decorato con stupende terrecotte, antefisse a testa di gorgone, di sileno o di donna e i famosi gruppi acroteriali, vere e proprie statue a tutto tondo poste sul crinale del tetto. L’antico pellegrino che giungeva al tempio doveva rimanere profondamente colpito dalle gigantesche figure che si stagliavano sullo sfondo del cielo come apparizioni divine scese dall’alto. La superba qualità di queste statue fittili oggi al Museo di Villa Giulia, ha fatto supporre che siano state prodotte nell’officina di Vulca di Veio, il famoso artista etrusco chiamato – secondo la tradizione - da Tarquinio Prisco a lavorare per il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Tutte le statue erano vivacemente colorate, con un effetto decorativo violento, lontano dal nostro gusto. La scultura più nota, autentico capolavoro della coroplastica antica, è quella dell’Apollo, recentemente sottoposta a un accurato restauro. Sebbene derivata dall’arte greca, con caratteri sia ionici che attici, presenta elementi originali che ne fanno un’opera schiettamente etrusca: non siamo di fronte ad una divinità del pantheon ellenico, idealizzazione dell’umanità, ma a un dio spietato e implacabile, che con slancio animalesco muove contro Eracle, che gli sta rubando la cerva cerinite, favoloso animale dalle corna d’oro, a lui sacro. Come nella raffigurazione del corpo in movimento, anche nel volto, con un uso sapiente della policromia, è stata raggiunta una potenza espressiva di rara intensità. La dea con un bambino in braccio dovrebbe essere Latona con il piccolo Apollo nell’atto di saettare il serpente Pitone, mentre ad un altro gruppo non identificato apparteneva la bella ed enigmatica testa di Hermes.

La potenza espressiva di tali opere era accresciuta da una profonda conoscenza anatomica, non intaccata dalla suggestiva stilizzazione arcaica. Straordinaria è la perizia tecnica che ha permesso la realizzazione di terrecotte le cui dimensioni potrebbero creare problemi anche ai nostri giorni.

Tra le antefisse si distinguono quelle terrificanti a testa di Gorgone con le fauci spalancate, i denti aguzzi, la lingua penzolante e la chioma di guizzanti serpentelli, dotate di un gusto per l’orrido che costituisce uno degli aspetti dell’arte etrusca più lontani dallo spirito classico. Forse coronavano il tempio per scacciare gli influssi maligni.

Il santuario era molto frequentato e i fedeli hanno lasciato una grande quantità di ex-voto, databili tra il VII ed il VI sec.a.C., tra cui una coppa di bucchero offerta da un certo "Avele Vipiiennas", forse quell’Aulo Vibienna vulcente, il cui nome appare nelle leggende intorno ai primi secoli di Roma.

Le necropoli si estendevano tutt’intorno alla città, fino a Formello. Nel territorio di Veio sono stati trovati i più antichi esempi di tombe dipinte non solo d’Etruria ma dell’intero bacino mediterraneo occidentale: la Tomba dei Leoni Ruggenti (690 a. C. circa – nella foto) e quella delle Anatre (680-670). Celebre è anche la Tomba Campana: prende il nome dal banchiere e collezionista dell’Ottocento che ne curò lo scavo ed è composta da due stanze in asse precedute da un lungo corridoio.

Negli affreschi che la ornano ricorrono motivi orientalizzanti, databili tra la fine del VII ed il VI sec.a.C., quali animali reali e fantastici, elementi vegetali e cavalieri accompagnati da figure a piedi. Grandi scudi policromi erano dipinti sulle pareti della seconda stanza.

Nel corredo di un’altra tomba, nel tumulo di Monte Aguzzo, è stato rinvenuto il più importante vaso greco del periodo orientalizzante: l’Olpe Chigi, oggi a Villa Giulia.

I Veienti erano anche dei veri maestri di ingegneria idraulica: realizzarono una fitta rete di cunicoli per il drenaggio dei campi, tunnel per il rifornimento idrico, cisterne e la famosa Galleria del Ponte Sodo, scavata nella roccia nel VI sec.a.C. per incanalare le acque del torrente Valchetta, eliminando così un’ansa troppo stretta che poteva provocare inondazioni.

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