La
contrada che per oltre due secoli fu ravvivata dalla presenza del teatro Apollo
rimase fino alla prima metà del '600 il luogo più triste della città per la
presenza delle temute carceri di Tor di Nona.
Dove risuonavano canti, melodie e si alternavano rappresentazioni con un
pubblico allegro e plaudente, in precedenza si erano uditi i lamenti e le urla
straziate dei prigionieri torturati.
Queste carceri erano situate
all’interno di una grossa torre superstite del recinto di mura eretto a difesa
della riva sinistra del Tevere, nel tratto che va dalla porta Flaminia
all’attuale ponte Sisto, a guardia di un posto di sbarco e di una posterula per
l'ingresso di materiali da costruzione e di derrate alimentari.
Il nome di "Torre della Nona", col
quale è menzionata in un documento della fine del '300, è un'alterazione di
Torre dell'Annona, ceduta per testamento nel 1385 da Giovanni di Giacomello
Orsini alla Compagnia del Salvatore.
Dal 1408 la fabbrica era
conosciuta come "la presone de lo papa"; e non si sa con precisione
quando cominciò ad essere adibita a carcere.
Da memorie del '400 sappiamo che
la torre, di grandi dimensioni, si innalzava con forma quadrata raggiungendo
un’altezza di tre piani con merli guelfi in cima. Adiacenti erano ampi magazzini
adibiti a deposito di legname.
Le carceri di Tor di Nona, destinate all'espiazione di delitti comuni, con
annesso il tribunale per le cause civili e criminali, dipendevano da un
ufficiale della Curia pontificia, il Soldano, scelto a sue spese tra i familiari
del Pontefice. Leone X trasformò il soldanato in "ufficio vacante" o "venale",
che poteva essere acquistato con una somma stabilita.
Paolo IV, volendo mettere riparo
agli abusi che si commettevano a danno dei detenuti, affidò la carica, insieme
all'ufficio criminale del Governatore, alla Compagnia di San Gerolamo della
Carità, fondata per assistere i malati e i prigionieri poveri nei loro processi
e nelle pratiche per la difesa e liberazione. Pio V nel 1568 incaricò la
Compagnia dell'amministrazione giudiziaria e finanziaria delle carceri.
Il fabbricato poteva contenere fino a duecento prigionieri, divisi nelle varie
prigioni "pubbliche" a seconda della categoria cui erano stati assegnati e alla
condizione personale di fortuna. Si dividevano in tre categorie: agiati, non
poveri, poveri che vivevano di carità e dell’obolo dei cittadini raccolto in una
cassetta appesa alle inferriate del piano terreno.
Per le donne e gli uomini i locali
erano separati; i sacerdoti occupavano una carcere a parte in una casa
adiacente. Vi era anche una prigione speciale per i galeotti in attesa del
transito.
In ogni piano erano circa venti celle "segrete", ciascuna con un nome
particolare come inferno, paradiso, purgatorio, la monachina, la zoppetta, la
fiorentina, il pozzo, la conserva, la paliana.
Altri locali erano destinati ai
tribunali del Vicario, del Governatore e dell’Auditore di Camera, dove si
giudicavano i delitti e si stabilivano le torture. Una delle peggiori era "la
veglia", praticata con molte precauzioni, affinché il prigioniero non
morisse durante il supplizio confessando la propria colpa.
L’edificio comprendeva ancora gli
uffici di Cancelleria, la stanza in cui avevano luogo le visite delle autorità,
la cappella, l'infermeria e in basso una cantina per la vendita del vino, esente
da gabella.
Nelle sudice, malsane mura di quella torre languirono attraverso i secoli
migliaia di condannati, fra cui molti famosi malfattori e personaggi storici,
come i fratelli Giacomo e Bernardo Cenci e Giordano Bruno. Francesco Pucci,
filosofo e letterato, compagno di prigionia di Tommaso Campanella nelle carceri
del Sant’Uffizio, fu trasferito a Tor di Nona per essere decapitato, dopo di che
il suo corpo venne arso in piazza Campo de’ Fiori. Aveva scritto alcuni trattati
con cui rivelava il desiderio di una religione universale di stampo utopistico.
Sosteneva di aver tratto le proprie concezioni grazie allo Spirito Santo che,
attraverso visioni, lo ispirava permettendogli di preconizzare il prossimo
avvento del regno di Dio che avrebbe provocato la conversione di tutti i popoli
sotto un’unica confessione cristiana.
La sua opera principale, del 1581,
è la "Forma d'una repubblica cattolica" con la quale reclamava "un
libero e santo concilio al quale si vede che tutti gli uomini da bene di tutte
le province inclinano".
Il "De Christi servatoris
efficacitate in omnibus et singulis hominibus" del 1592, dedicato a Clemente
VIII, in cui riassunse e sviluppò tutte le sue teorie su una Chiesa universale
ed ecumenica, gli valse la condanna a morte per eresia: fu catturato a
Salisburgo nel 1594 dall'Inquisizione e condotto in carcere a Roma, dove conobbe
Giordano Bruno e Tommaso Campanella, che in quegli anni andava maturando
attraverso drammatiche vicende l’uomo, il pensatore e il teorico della politica.
Dell’esperienza umana di Campanella furono componenti principali proprio il
carcere, la tortura, la persecuzione, la tetra cerimonia in Roma della pubblica
abiura e anche il supplizio del compagno di prigionia Francesco Pucci. Questi
fattori diedero vita alla cosiddetta "passione" campanelliana, il cui tono
tragico emerge in uno stadio alto nel sonetto scritto appunto per il supplizio
del Pucci, in cui rivela la ribellione e l’affermazione della propria
"missione":
"Anima ch’or lasciasti il carcer
tetro / di questo mondo, d’Italia e di Roma, / del Santo Offizio e della mortal
soma, / vattene al Ciel, ché noi ti verrem dietro. / Ivi esporrai con lamentevol
metro / l’aspra severitate, che ne doma / sin dalla bionda alla canuta chioma, /
tal che, pensando, me n’accoro e ‘mpetro. / Dilli che, se mandar tosto il
soccorso / dell’aspettata nova redenzione / non l’è in piacer, da sì dolente
morso / toglia, benigno, a sé nostre persone, / o ci ricrei ed armi al fatal
corso / c’ha destinato l’Eterna Ragione".
In Tor di Nona, verso la fine del
'400 i condannati venivano appesi ai merli della torre, spesso anche tre o
quattro alla volta, con ai piedi un cartello dove era scritto il nome e il tipo
di delitto. Nel '500 al laccio cominciò a alternarsi la mannaia con cui i rei
venivano decapitati nel cortile della prigione.
Alla tristezza del luogo era da aggiungere la desolazione dovuta alle periodiche
inondazioni del Tevere: il fabbricato, sulla riva del fiume, era il primo a
subire la violenza delle acque, come nel dicembre del 1485, quando molti
carcerati annegarono.