Fu l’unico sollievo dalla fame dei digiuni quaresimali La guerra di Mari e Tozzi, due re, per un solo dolce
Durante la Quaresima a Roma, per tutto l’Ottocento, era una regola ben precisa della Chiesa osservare digiuni severissimi in segno di penitenza, per cui alla maggior parte dei fedeli, la sera, non era concesso altro che nutrirsi con un solo maritozzo, quello con cui ogni mattina facciamo colazione al bar.
Nella versione quaresimale il maritozzo diventava
più piccolo, più cotto e quindi più scuro in superficie, mentre la ricetta si
arricchiva di canditi, pinoli e uvetta sultanina. Erano talmente buoni da
far scrivere ai primi del Novecento a Giggi Zanazzo, nelle sue "Tradizioni
popolari romane": "In Quaresima, per devozione, si mangiano i maritozzi;
anzi c'è qualcuno che è così devoto da mangiarsene chissà quanti al giorno. Meno
male che lo fa per devozione!". Più che la ricetta incuriosisce l'origine del nome di questo delizioso dolce romano, da qualcuno considerato semplicemente come il termine peggiorativo di marito, ma immortalato, si fa per dire, nel 1851 da Adone Finardi, che scrisse addirittura un poemetto dal titolo"Li maritozzi che se fanno la Quaresima a Roma", una favola scritta in un modesto dialetto romanesco. Scriveva in versi il Finardi che due Re, Mari e Tozzi, per antichi rancori non tralasciavano l’occasione per beffeggiarsi a vicenda. Un giorno il Re Mari fece collocare un grosso corno sulla porta della capitale del regno del Re Tozzi, che immediatamente inviò un suo ambasciatore per chiedere spiegazione dell’offesa ricevuta. Mari rispose con una tracotanza inaudita, al punto da non aver nulla da aggiungere come giustificazione del suo gesto, esclamando poi che, se per ogni corno piantato gli fosse stata chiesta soddisfazione con le armi, allora sì "vedressimo li morti a carettoni / ché le corna se metteno a mijoni". Risultò quindi inevitabile la dichiarazione di guerra tra i due sovrani che scesero in campo con i rispettivi eserciti. L’armata del Re Tozzi, guidata dai generali Zuccaro, Pignolo, Lievito e Zibbibbetto, pose l’assedio alla capitale del re Mari il cui esercito, con a capo Passerina, Acqua, Forno, Legna e Fiore, d’altro canto tentava di effettuare una manovra di accerchiamento, cercando di prendere alle spalle gli avversari. Dopo alcune battaglie cruenti e dagli aspetti drammatici, i due Re in persona scendono da cavallo e si affrontano con decisione, tanto che "li fichetti, li pugni e sganassoni / che vo’ vede’, volaveno a mijoni!". Alla fine, il Re Mari, pentito di aver combattuto in modo sleale, liberò il Re Tozzi, riabilitandone l’onore e cedendogli persino il suo esercito e il suo regno. L’abbraccio e la riconciliazione fra i due Re fu salutata da una gran baldoria fra i due eserciti che, entrati trionfalmente in Roma, si abbandonarono a pantagruelici banchetti e, proprio in occasione di uno di questi solenni pranzi, che al cuoco venne l’ispirazione di creare il maritozzo. Ecco la descrizione poetica fatta da Adone Finardi: "Sui nomi de li Re e de li guerieri / più famosi che c’ereno, ‘sto coco / arivortò per bene i su’ pensieri / e inventone, a quer bionno, press’a poco,/ ‘na pasta che po’ varda rarità, / s’annò davero ar monno a immortalà. / Prese Fiore, Pignoli e Passerina/ e Zuccaro e Cannito e Zibbibbetto,/ Acqua e Levito e, in quanto a la cucina, / se servitte de Forno e Legno schietto; / impastò, cucinò e da Mari e Tozzi, / je dette er nome, poi, de maritozzi". Nel 1852 Finardi ritornò a poetare sui maritozzi con una curiosa composizione in quattro canti, sempre in rima e in dialetto romanesco. In questo poemetto il "sor Adone" descrive allegoricamente "er viaggio der cavajer Ojo a Roma cor su scudiere Sale magnatutto o pe di mejo er fine der cumincio de li maritozzi".
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