L’architetto Salvatore Bianchi ne diede una dimostrazione suggestiva Il ferro, una cura architettonica per l’Ospedale Militare del Celio Per la costruzione del vasto centro ospedaliero fu distrutta villa Casali dove furono rinvenute numerose testimonianze archeologiche
Nei primi anni dell’Unità d’Italia, tra le applicazioni del ferro in architettura, a Roma si inserisce il grande Ospedale Militare del Celio con l’opera di Salvatore Bianchi, architetto della prima stazione Termini (1867-74), che aveva però, ai lati della grande tettoia metallica, fulcro dell'intero edificio, due ali di gusto neoclassico. Mediante tale artificio espressivo il Bianchi, nato a Roma nel 1821 da nobile famiglia, divenne uno degli anticipatori dell'utilizzo del ferro. Negli edifici pubblici amò inserire lo stile dei movimenti che in Europa andavano rinnovando i modi del linguaggio architettonico attraverso l'accoglimento delle nuove tecnologie, come si può osservare anche nel cimitero di Frascati, una delle sue opere più celebrate. Nel palazzo al n. 15 di via Margutta, di un gusto arcaico nella parte basamentale e sansovinesco nei piani superiori, il Bianchi adoperò una stilistica neo-rinascimentale, come nell'ingresso al cortile del palazzo di Spagna in via Frattina, nel palazzo Tomassini in via Nazionale e in quello Marignoli, nel lato che guarda piazza S. Silvestro. Il Bianchi curò, inoltre, diversi lavori di rinnovamento nel palazzo dell'Accademia di S. Luca, cui appartenne con il titolo di professore e di consigliere economo. Il grande Ospedale militare del Celio sorse sul luogo dove si estendeva Villa Casali. Salvatore Bianchi collaborò alla sua costruzione, su progetto e con la direzione del Colonnello del Genio - poi tenente generale e senatore del Regno - Luigi Durand de la Penne (1838-1921). Dopo lunghe discussioni sull’opportunità di collocare il complesso ospedaliero in quel sito, dovute anche all’aria malsana, fu posta la prima pietra nel luglio 1885. Venne completamente ultimato nel maggio 1891. Occupa un’area di 53.420 mq. ed è costituito da una trentina di padiglioni staccati dalle linee semplici riunite al livello del primo e del secondo piano da un gigantesco ponte doppio sostenuto da una lunga serie di pilastri in ghisa. Il problema di consentire agli ammalati di passeggiare senza scendere le scale e senza passare attraverso altre sezioni di cura venne risolto con una soluzione scenografica che favorisce la continuità tra i vari blocchi edilizi sparsi nel verde e l’edificio principale molto sviluppato in larghezza. Appaiono così gallerie coperte, passerelle metalliche con percorsi indipendenti per i malati e servizi. Le linee severe della decorazione proseguono dal corpo edilizio più grande lungo i parapetti che accompagnano la passeggiata, collegandosi ai vari padiglioni, semplici costruzioni a intonaco con cornici e mostre in mattoni a vista, secondo il modulo decorativo di quegli anni, supporto dell’architettura utilitaria. Dei ponti metallici, costruiti dopo il ’70, il più interessante è il ponte Garibaldi, costruito dall’ing. Vescovali nel 1878. La facciata principale dell’Ospedale, sulla piazza Celimontana, presenta la lapide con i nomi dei Caduti del rione Celio, opera dello scultore Guido Guida. Nel corso degli scavi per la costruzione dei padiglioni vennero alla luce molti edifici antichi tra cui nel 1889 la Basilica Hilariana della metà del II secolo, con un cortile centrale porticato preceduto da un vestibolo, dal quale si accedeva ad alcuni ambienti. Da un'iscrizione sulla base di una statua si è stabilito che il costruttore della basilica fu un certo Manius Publicius Hilarus, mercante di perle e seguace del culto di Cibele. Nel pavimento a mosaico del vestibolo è visibile una rappresentazione contro la sfortuna con alcune figure di animali disposte attorno a un occhio umano trafitto da una lancia. L'edificio accoglieva un collegio di adepti del culto di Cibele, del quale faceva parte lo stesso fondatore del complesso. Nel III secolo, durante le ristrutturazioni che modificarono in parte la disposizione degli ambienti, fu costruito un sacello destinato a custodire il pino sacro ad Attis (Arbor Sancta), il cui culto in quella zona trova riscontro nelle fonti antiche. Nella zona, ricca di testimonianze archeologiche, vennero rinvenuti numerosi reperti, tra cui una statua di basanite verde di Agrippina Minore in veste di Orante e 119 frammenti di una scultura in marmo bigio, la cosiddetta Vittoria dei Simmaci, oggi alla Centrale Montemartini. In marmo pario è la testa di Giulia, figlia di Tito, mentre in marmo bianco è il busto di Domizia Longina, moglie dell’imperatore Domiziano.
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