"Ave": il saluto degli antichi Romani La mano si dava di rado e l’imperatore Tiberio vietò i baci per strada
Nell’antica Roma il saluto era un gesto importante, alla base del vivere civile, che racchiudeva in sé molteplici significati. Se in strada si incontrava un semplice conoscente, la formula in uso era "salve!", oppure "ave", cui poteva seguire il nome della persona. A un saluto del genere si rispondeva con "salve et tu", ossia "salute anche a te". "Quid agis?", il nostro "come va?" poteva essere la battuta adoperata per approfondire la conversazione. La stretta di mano non era molto diffusa: di solito ci si salutava così dopo un lungo viaggio. Normalmente si stendeva la mano e si sollevava il "digitus salutaris", il dito del saluto, l’indice destro. In epoca imperiale entrarono in voga anche l’abbraccio e il bacio, pare però a esclusivo appannaggio della classe dirigente. Il bacio come saluto non era molto apprezzato. Secondo Marziale era una forma di saluto troppo invadente e poco igienica: a suo dire tessitori, tintori, ciabattini e altri insieme a loro "si sarebbero baciati anche pene e ventre". Il proveddimento dell’imperatore Tiberio, che vietò il bacio come saluto, rimase inosservato. Svetonio, scherzando sui troppi baci che la gente si dava per strada, così stigmatizzava il diffuso comportamento: "vuoi forse ogni volta che vedi uno di fretta, metterti a leccarlo?". In presenza di funzionari pubblici i passanti dovevano scoprirsi il capo in segno di omaggio. Le autorità potevano anche non rispondere. La "salutatio matutina" era invece una particolare forma di saluto che i clienti ogni giorno dovevano porgere al loro patrono in casa. "Devo dunque tremante di freddo, venire a salutarti all’alba, devo correre dietro al tua lettiga in mezzo al fango?", si lamentava secondo Marziale un povero cliente, pensando alle fatiche del suo stato. La "salutatio" avveniva nelle prime due ore del giorno e per questo, tra i clienti, c’era chi era costretto ad alzarsi all’alba per giungere in tempo a sbrigare l’annosa faccenda. Le file nei vestiboli delle case patronali erano spesso lunghe e proporzionate al potere del signore. C’era persino chi, ricorda Seneca, cercava di superare la calca a spintoni. Dopo la sospirata attesa, si salutava il patrono con "Ave domine!" ("Salve padrone!"). E pensare che, a volte, il patrono neanche rispondeva a questo atto di sottomissione, costato tanta fatica. L’argomento verrà approfondito nel corso dell’ "Intervista possibile" di "Questa è Roma!", la trasmissione ideata e condotta da Maria Pia Partisani, in onda ogni sabato mattina, dalle ore 11.00 alle 12.00, su Nuova Spazio Radio (88.150 MHz). |
|