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Il popolo romano lo ha interpretato come orco famelico

Attenzione al Befano!
E’ sempre in agguato

Roma è la città dove la tradizione della Befana sopravvive ancora con una certa solennità, se pur privata del sapore di una volta, quando nell’Ottocento piazza dei Caprettari e di Sant’Eustachio erano gremite per l’occasione di popolani che conducevano i più piccoli a comprare i giocattoli. Tutt’intorno si allineavano le baracche, ciascuna con la propria befana. Un orribile fantoccio, riprodotto da Bartolomeo Pinelli, così descritto nel "Rugantino" del 1888:

"Pressoché simili sono i ritratti della Befana di piazza Sant’Eustachio vista da vicino. Era un fantoccio vestito da donna e col viso tutto nero, gli occhi rossi, le labbra grosse, con una canna nella destra, e una lanterna nella sinistra.., ai suoi piedi erano posti canestri di portogalli indorati, di pomi e di frutta, e appese sul capo varie calze piene di ogni ben di Dio".

La fervida fantasia del popolo romano ha attribuito alla Befana, dispensatrice di doni ai bambini secondo la loro obbedienza ed il loro profitto, anche un marito, con cui viveva "molto, ma molto lontano", descritto come uno spauracchio terribile, ricordato all’occorrenza dalle mamme. Per cui quando i bambini si comportavano peggio del solito, accanto a "lo dico alla Befana" e a "viene la Befana e ti si porta via", veniva chiamato in causa anche suo marito, una specie di orco che divorava i bambini dopo averli maltrattati a lungo. Le strofe di una rima popolare descrivono con sorridente ingenuità i suoi tratti spaventosi: "Teresina / Io sono la Befana / Uscita da la tana / A ritrovatte / Te porto questa robba / Dorce in dono a rigalatte /Abbasta che sse’ bona / E obbediente / Si ttu sarà insolente / Te porto a la mia grotta / ’Nse magna più ricotta / Ne ccallalesse / Allor, io te vedesse / Te lego tutta quanta / Finchè non viè a ccasa / Mio marito / Viè ppieno d’appetito / Se mangia li regazzi / E ppo se li strapazza / A ppatimenti. / Si ttu le vedi i denti / So’ llunghi comm’un corno. / Dieci regazzi al giorno Se divora / Chi ppiagn’e echi ss’accora. / Chi ddice: Oh Ddio, la bbua / Chi cchiamma mamma sua. / E tutt’ invano.

Secondo altri, invece, la Befana abitava vicino a S. Eustachio, in una fantastica via della Padella, precisamente al 2, ma in quella strada del terribile marito non è stata mai rilevata alcuna traccia! Poi, quando dopo il 1872 le baracche vennero trasferite in piazza Navona anche la Befana traslocò per andare ad abitare da "single" sull’altana di palazzo Doria Pamphili, da dove poteva assistere alla grande animazione che ferveva la notte dell’Epifania, a cui contribuivano non soltanto i popolani, ma anche i nobili. Il principe Girolamo Bonaparte vi si recò con i più autorevoli esponenti dell’aristocrazia romana e non si lasciò sfuggire l’occasione di acquistare le tradizionali trombette romane, impegnandosi a suonarle a squarciagola nelle orecchie dei passanti.

Non solo a Roma il marito della Befana era crudele e spaventoso: nell’Alto Polesine, dove la Befana veniva chiamata "La Vecia", si diceva che avesse per marito il "Barabau", detto anche Befano, o "Vecion", evocato dalle madri come uno spauracchio per spaventare i bambini disubbidienti.

Quanto di più desiderabile come marito per la Befana è riscontrabile nel Basso Polesine e nella campagna ferrarese: addirittura Sant’Antonio Abate. Un’unione perfetta tra bontà e generosità. Talvolta, Befana e Befano pianificavano le loro trasferte, spartendosi equamente il compito di recare i doni nelle case, tenendo presente il sesso dei bambini: la Befana provvedeva alle bambine la notte dell’Epifania, mentre il Santo "Befano" era impegnato nella notte tra il 16 e il 17 gennaio.

In Toscana, invece, l’aspirante marito della Befana era il Carnevale, secondo una canzone popolare, "innamorato cotto della sua attempata sposina". Si presentava, però, "brutto e strasfigurato, con un giubbone tutto rattoppato, scarnito, tristo come quelli che han mangiato il pan pentito". Del resto, alla Befana, in procinto di sposarsi, "bisogna porgere qualcosa perché non ha né panni, né dote", recita la stessa canzone.

di Antonio Venditti

gennaio 2006

 

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