Il processo di magia contro Apuleio Filtri d’amore, maledizioni, incantesimi e superstizione nell’antica Roma
"Ero certo e sicuro, o Claudio Massimo, e voi tutti consiglieri, che un vecchio famigerato come Sicinio Emiliano sarebbe ricorso, in mancanza di fatti criminosi, a una valanga di ingiurie per sostenere l’accusa contro di me. Si può accusare benissimo un innocente qualsiasi, ma non lo si può condannare se non è colpevole…Mi assalirono all’improvviso tutti insieme e mi ricoprirono di ingiurie, accusandomi di praticare malefici magici, nonché della morte di Ponziano, mio figliastro". Inizia così il lungo discorso che il filosofo Lucio Apuleio pronunciò nel 158 d.C. nel tribunale di Sabratha per difendersi dalle pesanti accuse di magia che gli erano state rivolte dai parenti di sua moglie. L’imputato, allora trentenne, era accusato di aver somministrato a Pudentilla, una ricca matrona quarantenne, un arcano filtro d’amore a base di strani pesci marini. Lo scopo? Circuirla, sposarla e ottenere con un testamento la sua dote. Il "crimen magiae" nell’antica Roma veniva punito con la morte. Tanto erano diffuse le pratiche magiche presso i nostri progenitori che sin dall’epoca delle Leggi delle XII tavole (V secolo a.C.), si era ritenuto opportuno intervenire con una pesante sanzione su questa materia. Il provvedimento era stato ribadito dalla Lex Cornelia de sicariis et veneficiis promulgata da Silla nell’ 81 a.C. Non solo tra la povera gente erano in uso rituali spaventosi. Con la "defissione" ad esempio si consacravano agli dei infernali coloro che si volevano far colpire da una morte violenta o da una cruenta vendetta. Spesso si defiggeva anche la rivale in amore o l’amato oggetto del desiderio, nella speranza che ritornasse sui suoi passi. Su una laminetta che gli antichi chiamavano "tabella defixionis" veniva scritto in modo chiaro il nome di colui o colei che veniva maledetto, seguito per evitare scambi di persone da quello della madre. Poi si destinava alle potenze oscure una parte del suo corpo. La dedica veniva accompagnata da simboli magici, funerari e da formule di origine arcana come "bescu", "berebescu", "aratura", "bazagra". La tabula di piombo, una volta pronta, doveva entrare in contatto con il mondo dei morti. Per questo veniva immersa in un pozzo o in una sorgente d’acqua calda o infilata dentro una tomba. Nelle pozioni d’amore delle fattucchiere, gli "amatoria pocula", finivano ingredienti terribili come le viscere delle rane e dei rospi, erbe velenose raccolte nei cimiteri, denti di vipera e piume di barbagianni. Le formule magiche, dette "carmina", venivano pronunciate in scenari spettrali ed "erano capaci – come affermava terrorizzato il poeta Virgilio – di far precipitare la luna giù dal cielo". Tornando ad Apuleio: la sua straordinaria abilità oratoria e, soprattutto, la mancanza di prove sicure gli valsero la salvezza. Così il filosofo, che proprio all’oscuro delle pratiche magiche non doveva essere, ebbe modo di far valere le sue ragioni e di scampare a un grave pericolo. |
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