La magia nell’antica Roma, tra riti, maledizioni e amuleti "Numi e esseri santi, vi scongiuro di unirvi nel sostenere questo incantesimo, legando, incantando, opponendovi, intralciando, trattenendo insieme per distruggere, uccidere, fracassare l’auriga Eucherio e tutti i suoi cavalli domani nel circo di Roma. Che faccia una falsa partenza, che vada adagio nel percorso, che non sorpassi nessuno, né a giri bene, che non vinca premi! Se sta ostinatamente a ruota con qualcuno, che non riesca a vincerlo; se sta dietro a qualcun altro, che non gli riesca di sorpassarlo e che sia colpito da un incidente, venga trattenuto, possa sfracellarsi e, nelle corse del mattino e in quella del pomeriggio, venga frenato dalla vostra potenza. Adesso, adesso, presto, presto!" Nessuno potrà mai sapere quali odiosi motivi spinsero un imprecisato nemico dell’auriga Eucherio a dedicargli una "maledizione", forse la più terribile che ci sia giunta dall’antica Roma. Una semplice rivalità atletica sembrerebbe troppo poco per giustificare il fuoco di siffatte, funeste parole. Un dato però è certo: presso i discendenti di Romolo era pratica diffusa consacrare alle divinità infernali, attraverso un rituale detto "defissione", coloro che si volevano destinare alla morte. Su una laminetta chiamata "tabella defixionis" doveva essere scritto in modo chiaro il nome di colui o colei che si malediva, seguito per evitare scambi di persone da quella della madre. Poi si destinava alle potenze oscure una parte del suo corpo. La dedica veniva accompagnata da simboli magici, funerari e da formule di origine arcana come "bescu", "berebescu", "aratura", "bazagra". La tabula, una volta pronta, doveva entrare in contatto con il regno dei morti. Per questo veniva immersa o in un pozzo o in una sorgente d’acqua calda o infilata dentro una tomba. La superstizione nell’antica Roma non era diffusa solo presso gli strati bassi della popolazione. Monili d’oro e d’ambra si indossavano come potenti amuleti. Per combattere la negatività c’era anche chi teneva al collo ciondoli dalla forma di luna crescente e di fallo. Contro l’invidia si metteva in casa e si portava indosso un’erba amarognola, la ruta, molto usata anche in tavola, come testimoniato dalle ricette del cuoco imperiale Apicio. Ma la più bella risposta agli invidiosi è in un epigramma del poeta latino Marziale, che avrebbe dovuto leggere anche il nemico di Eucherio: "Schiatta d'invidia quel tale, carissimo Giulio, perché tutta Roma mi legge. Schiatta d'invidia perché sono segnato a dito dalla folla. Schiatta d'invidia perché Tito e Domiziano mi hanno concesso privilegi e favori. Schiatta d'invidia perché ho un pezzo di terra fuori città e una casa modesta a Roma. Schiatta d'invidia perché sono circondato da amici e invitato a cena. Schiatta d'invidia perché sono amato ed ho successo. Schiatta pure chi crepa d'invidia!". |
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