I riti propiziatori, semplice espressione popolare Tra "cocci" e botti arriva Capodanno Preziose le descrizioni d’epoca tramandate da Giggi Zanazzo e Filippo Chiappini. Nel Settecento il Papa utilizzava "agenti segreti" per verificare i modi di vita dei suoi sudditi, nobili compresi
La maggior parte delle usanze natalizie nella Roma nell’Ottocento si collegava ai riti di eliminazione del male accumulato nel tempo e a quelli di propiziazione del bene per un prospero inizio di un nuovo periodo, anche con le dovute riserve, come si legge nel sonetto "La fine dell’anno" di G.G. Belli. "Oggi trentun dicemmre," – scriveva il poeta - ch’è finita / st’annata magra de Giusepp’ebbreo / la signora fratesca gesuita / pe renne grazzie a Dio canta er Tedeo. / Dimani poi, si Cristo je dà vita, / ner medémo convento fariseo/ s’intona un’antra antifona, aggradita / a lo Spiritossanto Paracreo./ E a che serveno poi tant’apparecchi?/ Er distino oramai pare diciso / ch’ogn’anno novo è peggio de li vecchi. / Pòi defatti cantà quanto tu vòi, / che già Dio benedetto ha in paradiso / antri gatti a pelà che sentì noi". Molte credenze collegate a queste feste si ispiravano a una antica tradizione secondo la quale - nei giorni in cui le forze soprannaturali come la fortuna, gli spiriti benigni e maligni agiscono nel pieno della loro potenza – era a portata di mano la condizione favorevole per ricercare buoni auspici. Tra i riti di propiziazione del bene, che miravano alla liberazione da tutto ciò che è vecchio e privo di energia vitale - malattia e peccato erano in stretto rapporto - è da collocare l’usanza deprecabile, tuttora viva in alcuni quartieri di Roma, del lancio dalle finestre dei cocci a mezzanotte, proprio allo scoccare del nuovo anno: rito di eliminazione del male fisico e morale accumulatosi durante l’anno. Infatti, secondo la logica popolare, non liberandosi in quel momento di tutto ciò che nuoce al felice sviluppo della propria vita, nel nuovo anno nulla potrebbe concludersi nel migliore dei modi. Scriveva Giggi Zanazzo nelle "Tradizioni popolari romane", dei primi anni del Novecento: "A mezzanotte e un minuto, ossia quanno stà per entrà l’anno novo, ortre a fa’ li brindisi e la bardoria solita, s’hanno da buttà da la finestra tre pile de coccio piene d’acqua, co’ tutte le pile. Sto rimedio serve per allontanasse da casa la jettatura, la sfortuna e tutti l‘antri sciangherangà (dall’ebraico, disgrazie) der medesimo genero". Spesso ai cocci rotti si accompagnavano "botti", col duplice intento di scacciare e allontanare per l’intero nuovo anno gli spiriti maligni e nello stesso tempo come irresistibile manifestazione di allegria. Cosi li ricordava Filippo Chiappini nel suo "Vocabolario Romanesco ": "Fuochi di gioia che si accendevano in Roma avanti ai palazzi signorili in occasione di grandi feste e segnatamente la vigilia e il giorno di San Pietro. Si chiamavano ‘le botti’ perché si facevano con vecchie doghe accomodate in forma di botti e ripiene di fascine. I ragazzi del volgo si divertivano saltando a gara sopra le fiamme, come facevano in antico i fanciulli della plebe romana in occasione delle Palilie. Le botti erano andate in disuso prima del ‘70". Ben differente doveva essere la festa di Capodanno nel Settecento, quando il Pontefice ammetteva soltanto le alte cariche dello Stato a rendergli omaggio. Per di più, per essere informato delle abitudini e dei modi di vivere dei suoi sudditi, si serviva non soltanto degli agenti segreti del Vicariato e dell’Inquisizione, ma metteva in pratica anche forme di spionaggio domestico, di cui ben presto si venne a conoscenza, per cui cominciò una specie di stato di all’erta, specialmente tra i nobili. Si racconta, infatti, che mentre era in corso un fastoso ricevimento di Capodanno due strane figure si presentarono alla porta di un palazzo nobile, facendosi annunciare con dei nomi altrettanto strani. Il padrone di casa si precipitò a riceverli, scrutandoli con freddezza e attenzione. Quattro domestici, con dei candelabri in mano, si presentarono ai due venuti che subito dopo seguirono il maestro di casa con altri quattro valletti con vassoi ricolmi di confetture, canditi e dolciumi, mentre sopraggiungevano altri due servitori con sciroppi e liquori finissimi. Circondati da straordinarie manifestazioni di cortesia e ossequio, i due, dopo qualche perplessità, si videro costretti ad accettare i rinfreschi: analoga scena si ripeté a metà e alla fine della serata. Quando la strana coppia, al centro dell’attenzione di tutti i commensali, manifestò il desiderio di andarsene, quattro domestici si precipitarono ad accompagnarla dapprima ai piedi della scala per poi dirottarla all’interno di una carrozza nella quale fu fatta entrare con viva premura, facendola temere per la propria incolumità fisica. Erano questi i famigerati "missi dominici". Non tutti gli ingressi degli palazzi nobili, però, erano rischiarati nelle serate dedicate ai ricevimenti e ben pochi avevano un guardaportone o uno svizzero all’ingresso, pronti a dare il ben venuto. Verso la mezzanotte le feste terminavano e ogni invitato, dopo aver sorbito cioccolata, bibite, gelati e rinnovato saluti e auguri, faceva ritorno alla propria abitazione. I cardinali erano accompagnati fino alla carrozza da quattro domestici con i doppieri in mano, mentre i vescovi e i nobili da due valletti; gli altri avevano a disposizione un solo servitore: tutti, però, giunti al portone, esigevano una mancia per il servigio reso. Quando un ospite aveva frequentato più volte la casa di un patrizio, il decano dei domestici, a nome dei suoi colleghi, si premurava di formulargli ogni sorta di felicità, ritirandosi soddisfatto dei "testoni" ricevuti come mancia. |
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