A piazza Navona, Indipendenza, Porta
Pia, S. Croce, avvenivano le estrazioni
La tombola a Roma, un gioco popolare
Uomini e donne di ogni ceto ed età si univano anche in cooperativa,
sia per la vincita che per la perdita
L’estrazione della tombola nelle
piazze di Roma nel periodo antecedente la prima guerra mondiale,
come è stata descritta da Piero Scarpa, dava vita ad uno spettacolo
spontaneo, ricco di vivacità, con un pubblico affezionato al gioco,
che accorreva in piazza dell’Indipendenza, di Porta Pia, Navona, S.
Croce, Mastro Giorgio a Testaccio, a seconda dell’annuncio del
manifesto che recava a grossi caratteri la dicitura in rosso:
"Tombola di lire 3000". La somma, però, veniva solitamente così
suddivisa: tombola 2000 lire, cinquina 750 lire, quaterna 250 lire.
La folla, composta da uomini e donne d’ogni ceto ed età, confluiva
nella piazza all’ora indicata. L’estrazione, tempo permettendo,
iniziava sempre verso sera, per dar modo ai venditori delle cartelle
di piazzarne quante più possibile. Non di rado, per la caduta di
qualche goccia d’acqua, veniva rimandata alla domenica successiva.
Durante le due ore che precedevano l’estrazione, la banda
dell’Associazione militari in congedo era incaricata di rallegrare
la folla, che in trepidante attesa si dedicava al controllo dei
numeri scritti sulle cartelle, non sempre perfettamente nitidi.
Intanto il venditore ambulante di matite, con uno scatolone appeso
al collo, ne mostrava ai passanti un buon numero, accuratamente
temperate e ben strette nel pugno, gridando: "Chi nun cià er lapise
nun vince la tombola". Il "bibbitaro" si affannava a versare acqua
con aggiunta di limone o di anice, mentre intorno ai tavolini, ove
si riempivano le cartelle, i giocatori, in comitiva, si impegnavano
a pronunciare il numero destinato ad assicurare la vincita.
L’imbussolamento dei numeri avveniva lentamente per protrarre quanto
più possibile la fase finale dell’estrazione, mentre sul palco,
addobbato con larghe striscie di tarlatana con i colori nazionali,
tra un gran movimento, arrivavano i rappresentanti degli enti che
dall’organizzazione della tombola traevano guadagno, la Prefettura e
il Comune. Un ragazzo, appartenente all’orfanotrofio interessato
degli utili ricavati dalla vendita delle cartelle, porgeva gli
astucci vuoti all’incaricato di porvi dentro, di volta in volta, il
numero già pronunciato, per ordine e ad alta voce; poi li riceveva
di nuovo in consegna, dopo averli ricacciati nell’urna: quando
raggiungeva la decina, dava una girata alla manovella per
mescolarli. Intanto gli addetti alle tabelle di segnalazione, poste
una sul palco, l’altra di fronte, quasi nel mezzo della piazza,
mettevano in ordine i grossi numeri stampati per esser pronti ad
ogni chiamata ad infilarli nelle apposite caselle e fornire così
esatta verifica del procedimento del gioco. Giunto il momento
fatidico dell’estrazione, la piazza sprofondava in un generale
silenzio, tutti stavano con le cartelle in mano e la matita pronta a
segnare. Pendevano dalle labbra dell’annunciatore, seguendo due
precisi movimenti ritmici: prima, le teste si rivolgevano in alto
per conoscere il numero uscito, poi si abbassavano per controllare
se il numero era compreso nei dieci giocati. Appena annunciata la
vincita, tra la folla si avvertiva un generale brusio, accompagnato
da un coro di esclamazioni di rimpianto. Se si dichiarava per errore
la vincita, i fischi più assordanti riempivano la piazza e
accompagnavano il malcapitato salito sul palco, certo di aver vinto.
Quando veniva innalzata sul palco la bandiera bianca era il momento
in cui il banditore annunciava che la tombola era stata vinta,
specificando i numeri. Il vincitore, dopo essersi presentato al
pubblico per il doveroso saluto, ritornava tra i parenti ed amici,
pronti ad accoglierlo a braccia aperte e con qualche lacrima. Il
nome, cognome, indirizzo e professione il vincitore li dettava al
Commissario incaricato della convalida della vincita. Non di rado
accadeva che la vincita capitasse contemporaneamente ai possessori
di due o tre differenti cartelle e allora l’entusiasmo dei favoriti
dalla sorte scemava. I parenti, colpiti duramente nei propri
interessi, rimpiangevano il denaro che lamentavano di aver rimesso
per un destino avverso e atroce. Il ritorno a casa dei
giocatori non era immediato, perché tra un commento e l’altro
sull’estrazione dei numeri e per riconsolarsi col "goccetto bbono"
della sofferenza patita per avere veduto uscire dall’urna senza
averlo giocato, il numero che la "commare" aveva dato per sicuro, si
facevano soste nelle osterie del rione, che si protraevano se per
caso pioveva. Con la pubblicazione, all’indomani, sui giornali del
nome e indirizzo del vincitore, finiva la tranquillità. Il solito
vecchietto magro e curvo bussava ossequioso alla porta
dell’abitazione del fortunato, presentando un modestissimo mazzo di
fiori, accompagnato da un biglietto con la dicitura a grossi
caratteri: "Un gruppo di operai esultanti e riconoscenti offrono".
Non si muoveva se non quando veniva aggiunto altro denaro alla
mancia, che a suo parere, per quanto fosse generosa, non compensava
mai il costo dei fiori. Qualche volta si presentavano gli <sminfaroli
>, tre o quattro suonatori di tromba, cornetta e tamburo, che
improvvisavano dei concerti fino a quando non ricevevano un po’ di
soldi e l’invito a bere. Ma non finiva qui. Poi era la volta del
portiere, del portalettere, dell’asportatore di immondizie: tutti si
premuravano a formulare i propri interessati rallegramenti. Infine i
compagni di lavoro esigevano una ricca bevuta con pagnottelle
imbottite.
Spesso il vincitore non riusciva a far
fronte con la vincita ai debiti accumulati. Si rendeva irreperibile,
divulgando la notizia della sua dipartita. Uno di questi,
perseguitato dai creditori, si chiuse in casa dopo aver fatto
affiggere un buon numero di partecipazioni con l’annuncio della
propria morte, avvenuta per sincope in seguito all’emozione provata
per aver vinto a tombola. Gli strozzini non fidandosi dell’annuncio,
chiesero l’apposizione dei sigilli all’appartamento ove si trovava
il finto morto, il quale, dopo dieci giorni di forzato digiuno,
nonostante avesse a disposizione il denaro necessario per consumare
lauti pranzi, fu costretto a resuscitare per fame.
di
Antonio Venditti
febbraio 2003
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