L’adulterio nell’antica Roma: come una coppa di buon vino

 

di Cinzia Dal Maso

La paura di essere traditi è sempre in agguato. Specie in amore. Gli antichi romani consideravano l’adulterio un’offesa terribile, da punire col massimo della pena. Alla donna non poteva essere perdonata una colpa così grave, poiché il matrimonio era considerato un vincolo sacro ed inviolabile. Le ragazze giuravano fedeltà al futuro marito già con la celebrazione del rito di fidanzamento, chiamato "sponsale". Durante la cerimonia veniva consegnato alla "sponsa" un anello da infilare al dito anulare, da cui si credeva partisse un nervo che arrivava sino al cuore. In seguito avveniva la cerimonia nuziale, detta "coemptio": si trattava di una vera e propria compravendita, poiché la donna veniva "acquistata" alla presenza di un testimone, chiamato "libripens", che reggeva la bilancia su cui lo sposo-compratore gettava il denaro. In quel momento la donna passava ufficialmente dalla potestà paterna a quella del marito.

Tra i divieti imposti ad una buona madre di famiglia c’era quello, per noi piuttosto difficile da comprendere, di bere il vino. Alcuni studiosi spiegano il fatto in relazione ad una diffusa credenza che gli attribuiva la proprietà di far abortire, pratica vietata alle donne se non attraverso il consenso del marito. Secondo altri, si impedivano così gli atteggiamenti scostumati che, con un’allegra bevuta, potevano condurre al tradimento. Pare tuttavia più probabile che nella cultura romana bere del vino equivalesse a compiere l’adulterio, poiché come in una relazione extraconiugale la donna accoglieva dentro di sé un principio vitale estraneo. Egnazio Metennio, a quanto ci tramanda Varrone, avendo sorpreso la moglie a bere, la uccise brutalmente a frustate. Baciando sulla bocca la propria donna, si verificava che non si fosse data al vino. Almeno nei tempi più antichi, una "scappatella" poteva costare la vita e terribili torture. L’amante della moglie, se colto in flagrante, diveniva vero e proprio oggetto della giustizia sommaria del marito tradito, che poteva sodomizzarlo con una radice piccante di rafano e con un mugile, pesce voracissimo. In alcuni casi si arrivò addirittura al taglio del naso e delle orecchie, all’evirazione ed alla violenza sessuale di gruppo. L’uccisione era sicuramente la soluzione meno straziante. Le donne, macchiatesi di una colpa così grave, erano condannate a morir di fame. Sempre meglio di essere sepolte vive, come le Vestali che infrangevano il giuramento di castità. Fu il buon Augusto, a cui toccò in sorte una figlia piuttosto scapestrata, la famigerata Giulia, a regolamentare la procedura penale sull’adulterio. L’Imperatore stabilì che venisse considerato un crimine pubblico da punire con l’esilio della moglie: così l’infedele non poteva più essere uccisa dal marito, ma soltanto ripudiata.


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