Con zampognari e carciofolari arrivavano le melodie di Natale
 

di Cinzia Dal Maso

La festa di Santa Caterina, il 25 novembre, era attesa con ansia nella tranquilla Roma dell’Ottocento. A cominciare da quella data, infatti, dai monti abruzzesi, soprattutto da Atina, vicino Sora, scendevano nella Città Eterna i pifferari e gli zampognari, come ricorda Gioacchino Belli: “E cominceno già li piferari / a calà da montagna a le maremme / co quell farajoli tanto cari! / Che belle canzoncine! ogni pastore / le cantò spiccicate a Bettalemme/ ner giorno der presepio der Signore”.

Sembra che questi caratteristici suonatori facessero la loro prima comparsa in Roma nel 1618, nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, dove il padre Giacomo Cotta, dell’Ordine dei Predicatori, aveva introdotto la Novena di Natale, diffusa poi in tutto il mondo.

Essi venivano ad allietare col suono dei loro strumenti, in ricordo dei pastori che avevano salutato l’avvento del Redentore, la festa l’Immacolata Concezione e il Natale. Avvolti in larghi e pesanti mantelli, con il cappello di feltro nero ornato di nastri a vivaci colori, con le caratteristiche calzature dette ciocie, a gruppi di due o tre, si fermavano, prima del sorgere dell’alba, davanti alle edicole sacre, negli androni dei palazzi, nelle stalle delle latterie, celebrando per nove giorni ciascuno il mistero della Natività. Non tutti gli animi, però, erano ben disposti nei confronti di queste nenie antelucane. Raccontava Stendhal nelle sue “Passeggiate romane”, del 1829: “Da quindici giorni siamo svegliati alle quattro di mattina da piferari o suonator di cornamusa. Costoro farebbero venire a nausea la musica: sono grossolani contadini coperti di pelli di montone, che scendono dalle montagne degli Abruzzi e vengono a far serenate alle Madonne di Roma...Nulla è più odioso come essere risvegliati a notte fonda dal malinconico suono delle loro zampogne... Leone XII, che ne aveva conosciuto il fastidio prima di salire al trono, fece loro ingiungere di non risvegliare i suoi sudditi prima delle quattro”.

Il popolo, invece, era affezionato a questa tradizione. Nel sonetto “La novena de Natale”, Gioacchino Belli fa dire ad una popolana: “e a mé me pare che nun sii novena / si nun sento sonà li piferari. / Co quel‘annata de cantasilena , / che serve, benemìo! so’troppo cari. / Quann’è er giorno de Santa Caterina / che li risento, lo ciarinasco ar monno / me pare a me de diventà reggina. E quelli che de notte nu li vònno? / Poveri scemi! Io poi, ‘na stiratina, / e me li godo tra viggij’e sonno”. I pifferari restavano a Roma fino all’antivigilia di Natale, quando tornavano a casa, per passare la festa con le loro famiglie.

Anche i “carciofolari” erano per lo più abruzzesi, ma cantavano e suonavano l’arpa e il violino con il manico in su. Il loro nome deriva dalla parola “carciofolà”, con cui terminavano le strofe d’amore.


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