Introdotto a Roma nel ‘600, fornì la dote alle zitelle povere

 Il gioco del lotto: tre secoli di sogni

 di Antonio Venditti

 

L’ingresso del lotto in Italia può datarsi al XVI secolo ad opera di un patrizio genovese, Benedetto Gentile ed è da collegare alle scommesse praticate a Genova in occasione del rinnovo semestrale dei 5 membri dei Serenissimi Collegi, sorteggiati fra 120 nomi, ridotti poi a 90 - come i numeri del lotto - messi in una urna detta “seminario”.

Da Genova, il lotto arrivò a Roma, ma venne proibito da Innocenzo XI nel 1685

e da Innocenzo XII nel 1696. Fu consentito da Clemente XI (1700-21) e da Innocenzo XIII (1721-24), venne proibito in perpetuo da Benedetto XIII nel 1725 per essere poi confermato da Clemente XII (1730-40) e di nuovo abolito perché i romani continuavano a puntare sui lotti “ esteri “, tanto che  il papa si servì persino della scomunica.

L’estrazione del nuovo lotto avvenne giovedì 14 febbraio 1732 in cima allo scalone del Pa­lazzo capitolino. In prin­cipio, si tennero 9 estrazioni l’anno, sempre il giovedì. Dal Diario di Roma del 2 febbraio 1743 sappiamo che la loggia della Curia Innocenziana, ossia del Palaz­zo di Montecitorio, fu la nuova sede per l’estrazione dei numeri del lotto.

A Roma, come a Napoli, il lotto fu espressione di fede popolare mista a superstizione. Numeri sicuri si ottenevano recitan­do una novena a Sant’Alessio o a San Pantaleone che si credeva andasse di persona in casa delle postulanti, oppure piantando 90 chicchi di grano in un vaso di terra raccolta accanto alla croce di San Lorenzo. Anche dai frati zuc­coni o torzoni (i conversi) si potevano avere numeri vincenti.

Gli astri erano una fonte di ispirazione: le stelle vicine alla luna annunziavano   numeri bassi, quelle lontane numeri alti. Per­fino le esecuzioni capitali costituirono ottimi spunti per i numeri da giocare, naturalmente effettuando dei precisi riti, come correre di notte davanti alla   chiesa di S. Giovanni decollato - dove si seppellivano i giustiziati pentiti - o al Muro Torto - dove si buttavano i corpi degli im­penitenti – recitando delle preghiere. Occorreva, però, tradurre in numeri da giocare i segni delle anime, attraverso il “Libro dell’Arte” o dei sogni. Indossare la camicia di un giusti­ziato dava la certezza di una sua apparizione in sogno e dei numeri fortunati.

Nel 1811, durante la dominazione francese, le estrazioni fu­rono spostate nell’abside della SS. Concezione a Campo Marzio, ma il 5 novembre 1841 Pio VI le riportò a Monte­citorio.

I proventi del lotto furono utilizzati in un primo tempo per le doti delle zitelle povere, poi per utilità pubblica.

Gli ebrei erano obbligati dal Governo Pontificio a giocare serie di numeri delle prime decine, senza alcuna combinazione, per il timore che avessero la facoltà di prevedere le estrazioni.

Per avere fortuna al lotto i cristiani tenevano in tasca un trifoglio o due denti   legati con un filo di seta sba­vato da una lumaca, oppure in casa una lucertolina

appena nata o con due code, o il corno di un bu­falo macellato secondo le

norme ebraiche e tenuto una notte all’aria aperta.

I numeri, contenuti in un’urna d’argento, “terrina”, venivano estratti da un orfanello, chiamato dai romani “roffianello”, perché sospettato complice dell’Im­presa pontificia de’ Lotti.

Dal 1814, le estrazioni furono 48 l’anno, 24 a Roma e 24 sui lotti toscani i cui risultati arrivavano la domenica o il lu­nedì. L’estrazione si faceva il sabato mezzogiorno, ma veniva anticipata al venerdì se il sabato era festivo.

 

 

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