Pasquino: la voce di Roma,
da lungo tempo silenziosa

 

Pasquino è la famosa “statua parlante” sulla quale i romani per tre secoli e mezzo hanno affisso satire  politiche. Il tronco marmoreo si trova fin dal 1501  vicino piazza Navona, all’angolo del Palazzo Braschi, al posto del quale fino al 1700 era quello Orsini, acquistato dal cardinale Oliviero Carafa. E’ l’avan­zo di un gruppo statuario derivante dall’ornamento dello Stadio di Domiziano, scoperto in quella stessa zona durante gli scavi per la sistemazione delle fondamenta della nuova costruzione e della piazzetta antistante. Fu ammirato dal Bernini come “il più bel pezzo di scultura antica”, precisa il prof. Paolo Moreno, per il quale “si tratta della copia conosciuta da più antica data, alla fine del Quattrocento”, della scultura ellenistica raffigurante Menelao con il corpo di Patroclo.

L’origine del nome viene riferita a coloro che ebbero una casa o una bottega nelle vicinanze, a partire da un maestro di scuola domiciliato sulla piazzetta di Parione, come riferisce nel 1510 Giacomo Mazzocchi, editore della prima raccolta dei “Carmina ad Pasquillum posita”. Ad attribuirgli quel nome, per deriderlo, sarebbero stati gli alunni del vicino Archiginnasio della Sapienza. Per l’umanista Celio Curione la statua ricorderebbe un barbiere, mentre per il Castelvetro un sarto la cui bottega era frequentata da chi desiderava ascol­tare maldicenze, motti salaci: una lingua capace di “tagliare e cucire i panni addosso a tutti”. Teofilo Folengo nel suo “Baldus” afferma che un mastro Pasquino aveva un’osteria nelle vicinanze.

Il cardinal Carafa, dopo aver fatto collocare la scultura su un piedistallo, dispose che fosse utilizzata per una gara poetico-satirica. Il 25 aprile di ogni anno, festa di San Marco, infatti, un gran numero di epigrammi, satire in prosa, in poesia, in la­tino o in volgare, stampati o manoscritti, riferiti a personaggi o a fatti del giorno, venivano affissi sulla statua, per l’occasione ricoperta di drappi multicolori.

Con l’andare del tempo l’uso di Pasquino per pubblicizzare le esercitazioni letterarie divenne continuo ed alla produzione in latino e in dotto volgare, subentrò il dialetto romanesco, che per la vivacità delle espressioni ben si addiceva alla satira. Ed ecco la sua voce diventare quella del popolo romano, con il compito di castigare il malco­stume attraverso epigrammi pungenti, con ingiurie, argute parolacce, oscenità, affissi clandestinamente sulla statua.

Divenne un modo per poter esprimere motti di spirito e critiche contro i cardinali, la Curia e persino contro Napoleone Bonaparte, alla cui morte su Pasquino apparve questa quartina: “Non pianger passeger dal duolo assorto/, chi giace qui; perché se fosse in vita/ per la guerra e superbia sua infinita/ ci regnerebbe e tu saresti morto!”. Pasquino fu per lungo tempo la voce della protesta del popolo e dei più poveri, spinti ad af­figgere sulla statua le polizze del Monte di Pietà non riscattate.

Pasquino fu utile a tutti per manifestare la propria critica, il biasimo e persino per i ricatti. Poeti misero e scrittori misero a disposizione la loro penna, da Pietro Aretino a Giovan Battista Marino, Niccolò Franco, Colocci, Tebaldeo e il Molza. Le satire furono affisse anche su altre “statue parlanti”: su Marforio, il principale interlocutore di Pasquino, poi nel cortile dei palazzi capitolini, Madama Lucrezia, vicino alla chiesa di San Marco, a fianco del portone laterale di Palazzo Venezia, il Facchino all’angolo di via Lata, l’Abate Luigi ora in un angolo di piazza Vidoni e il Babuino, sistemato in seguito nell’omonima via.

Tra tutti emerse l’Are­tino, che, per la sua vena pungente, ebbe molti doni dai potenti con la speranza di farlo tacere.

Per tutto il Cinquecento le “pasquinate” vengono utilizzate per screditare gli avversari dentro e fuori la Curia. Le condanne a morte dei poeti, come Nicolò Franco nel 1566, non frenarono la voce di Pasquino. Segretari, curiali insoddisfatti e porta-borse di cardinali papabili seguitano a farsi sentire, finendo per alzare il tono anche nel regime di polizia instaurato da Sisto V che non darà loro peso, definendole semplicemente: “Sono pasquinate e nient’altro”.

“Il gusto per l’anonima infamia” proseguì nel ‘600 e nel ‘700. L’elezione al soglio pontificio era l’occasione più ricercata per versi e prose con ingiurie e diffamazioni. Nessun pontefice venne risparmiato dalle critiche di Pasquino.

Fra i Papi non si salvarono Alessandro VI, Giulio II, Leone X, Adriano VI che voleva fare a pezzi Pasquino e gettarlo nel Tevere, Clemente VII, Paolo V, Urbano VIII, che do­vendo erigere un palazzo, chiamato poi Barberini, utilizzò un gran numero di pietre tolte al Colosseo. Una mattina, su Pasquino apparve scritto in latino: “Quel che non fecero i barbari lo fece un Barberini”. Ed ancora Innocenzo X, Alessandro VII e Benedetto XIII, che minacciava “la pena di morte, la confisca dei beni, l’infamia del nome” per “chiunque, senza distinzione di persone, clero compreso, scrive, stampa, diffonde…libelli che abbiano carattere di pasquinate”. Durante il conclave per l’elezione di Pio VIII nel 1829, i gendarmi erano a guardia di Pasquino. Infine, Pio IX, che per il suo viaggio a Firenze con il Granduca Leopoldo di Toscana ebbe la seguente pasquinata: “Esempio di virtù sublime e raro/ Cristo in Sionne entrò sopra un somaro/. Entrò in Firenze il Suo Vicario Santo/ anch’Ei col ciuco, ma l’aveva accanto!”.

Qualche volta a Pasquino toccò la parte dell’adulatore e si lasciò proteggere dai cardinali o coccolare dai papi: soprat­tutto da Leone X, per il quale cantò: “Leone mi carezza, mi protegge, mi adorna, mi rende cospicuo di ricchi ornamenti, io che ero nudo in tutto il corpo “.

La morte del cardinale Carafa fu per Pasquino come quella di un padre: la statua si vestì a lutto.

Scriveva Trilussa a Pasquino: “Povero mutilato dar Destino, — come te sei ridotto! ... Te n’hanno date de sassate in faccia! — Hai perso l’occhi, er naso... E che te resta? — un avanzo de testa — su un corpo senza gambe e senza braccia!”. Rispondeva Pasquino che veramente gli era rimasta “la bocca sola”, per poi aggiungere:  ancora “nun ho detto l’urtima parola”.

 di Antonio Venditti

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