Maschere e mascherine di Gioachino Belli
Durante la pandemia, qualche buontempone ha pensato bene di
arrampicarsi sul monumento di Gioachino Belli, in Trastevere, per
mettere anche sul viso marmoreo del poeta di Roma una di quelle
mascherine chirurgiche che sono diventate, nostro malgrado, parte
della quotidianità.
E il Belli ha continuato a guardare sornione, dall’alto del suo
piedistallo, il passaggio di un’umanità un po’ spaesata per i
cambiamenti che un morbo sconosciuto ha portato nella sua vita.
Certo quella mascherina, anche se messa con un intento irriverente,
non gli sarebbe dispiaciuta. Non aveva forse affermato
perentoriamente, in un sonetto del 17 gennaio 1838: “Io, pe mmé, nun
c'è ar monno antro de bbono / Che ggirà ppe le strade ammascherato”.
Laddove c’è un regime totalitario, manca la libertà di parola e di
espressione, la satira è un’arma formidabile che sveglia le
coscienze e scalda gli animi, anche se spesso l’autore è costretto a
rimanere nell’ombra, nascosto. È un po’ la storia del nostro poeta,
i cui sonetti graffianti e dissacranti circolavano nella
clandestinità, visto che “a Rroma co la mmaschera sur gruggno / Ar
meno se pò ddì la verità”.
C’era però anche un’altra maschera, sul volto di Belli, quella
bonaria e buffonesca che costituiva il risultato della sua vittoria
su sventure private e sofferenze. “Conosco il tasto della ilarità,
tocco quello ed esso fa l’ufficio suo. Io rimango intanto freddo e
malinconico”, aveva scritto ad Amalia Bettini.
di
Cinzia Dal
Maso
4 aprile 2022
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