Quando i rifiuti a Roma si trasformavano in guadagno
La raccolta differenziata della Sacra Famiglia
Se la raccolta differenziata dei rifiuti è oggi
per Roma uno spinoso problema, ci fu un tempo in cui la nostra città
era guardata dal resto d’Italia come un esempio da seguire nella
trasformazione degli scarti in ricchezza. Infatti, sul finire
dell’Ottocento un’associazione benefica che soccorreva i fanciulli
derelitti trovava in questa attività la sua principale rendita. Si
trattava dell’Asilo Sacra Famiglia, istituito nel 1882 e riordinato
nel 1888, che accoglieva i ragazzi di ogni provincia del Regno, di
“qualunque culto, professione, che siano abbandonati, maltrattati,
massime se orfani o figli di genitori condannati al carcere o ad
altre pene maggiori”, di età compresa tra i 7 e i 12 anni. L’asilo,
che aveva sede in una modesta casa in via Capo d’Africa, tra San
Giovanni e il Colosseo, dava ai giovanetti vitto e alloggio,
un’istruzione elementare, insegnava loro un mestiere. Alcuni erano
avviati alla coltivazione dei campi, mentre a quelli più portati per
la musica si insegnava a suonare uno strumento. Per la raccolta dei
rifiuti, la città era divisa in trenta zone, assegnate ad
altrettanti raccoglitori, che settimanalmente ritiravano con il
sistema del porta a porta tutti gli scarti che potevano essere
riciclati. I magazzini si trovavano in viale Aventino. Qui ogni
giorno, prima del tramonto, si poteva vedere la fila di carretti
colmi di sacchi che erano accolti dal direttore, Giuseppe Malipieri,
romano. Al mattino alcune donne, le cosiddette capatrici, vuotavano
i sacchi, dividendone il contenuto nelle diverse ceste. Solo nel
1894 tale attività aveva fruttato la bella somma di 45 mila lire, di
cui circa la metà era andata per l’affitto dei locali e per pagare
gli addetti, dando un guadagno di almeno 20 mila lire. Le ossa che
erano servite per preparare il brodo e altre pietanze, spedite a
Milano, erano state pagate 12 mila lire. Gli stracci, invece,
venduti a un certo Donati di Roma, avevano dato un guadagno di 15
mila lire. I vetri rotti si vendevano a 7 lire al quintale, contro
le 19 lire di un quintale di frammenti di cristallo. I guanti, anche
rotti o spaiati, erano acquistati da una fabbrica di strumenti
musicali di Recanati, che li pagava 50 centesimi al chilo. A che
saranno serviti? Il ferro andava a Tivoli, insieme con la carta di
libri e giornali, che sicuramente veniva conferita alle cartiere. Le
scarpe vecchie, di ogni forma e colore, formavano un immenso mucchio
in una stanza le cui pareti erano letteralmente tappezzate dagli
unici oggetti che non avrebbero mai trovato un compratore: stampe e
dipinti a olio di Santi, Madonne ed eroi risorgimentali.
di
Cinzia Dal
Maso
1
gennaio
2020
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