Sull’Isola Tiberina si
seppellivano gli annegati
La Confraternita
dei Sacconi Rossi
L’origine della Veneranda confraternita de'
devoti di Gesù Cristo al Calvario e di Maria Santissima Addolorata
risale al XVII secolo. La sua sede era un piccolo oratorio situato
sull’Isola Tiberina, a sinistra della chiesa di San Bartolomeo. La
pia associazione è più nota con il nome di Confraternita dei Sacconi
Rossi, per il singolare abbigliamento dei suoi membri: un saio con
cappuccio di color rosso acceso.
Inizialmente i confratelli si dedicavano all’elemosina in silenzio e
alla preghiera, percorrendo quotidianamente le tappe della Via
Crucis all’interno del Colosseo invocando il perdono per le anime
del Purgatorio.
La congregazione venne ufficialmente riconosciuta da papa Pio VI
Braschi, che nel 1784 le concesse di ricavare sotto l’oratorio una
cripta che divenne una sorta di cimitero, dove i confratelli
seppellivano i corpi degli annegati nel Tevere di cui parenti non
avevano fatto alcuna richiesta.
I corpi recuperati venivano portati in un ambiente della
confraternita, dove erano immersi in una vasca con acqua e calce
spenta per essere disinfettati. Seguiva una funzione religiosa,
quindi le ossa scarnificate venivano deposte in maniera decorativa,
anche in guisa di lampadari, nella cripta del convento che divenne,
con il passare del tempo, un cimitero simile a quello della cripta
dei Cappuccini di via Veneto. Nell’Ottocento l’opera della
Confraternita subì un certo rallentamento. La cripta era malsana,
soprattutto nei mesi invernali, quando le piene del Tevere la
rendevano impraticabile. Nel 1849, durante l’assedio di Roma, le
truppe francesi occuparono i locali dell’oratorio, saccheggiandoli e
trasformandoli in dormitorio. Continuavano le processioni, come
quella che impressionò, intorno alla metà del secolo, lo storico
Ferdinand Gregorovius: “La nostra attenzione però è fissata su
quella lunga fila di persone, le quali camminano solennemente due a
due, e che paiono appartenere al medio evo quasi altrettante figure
dipinte da Giotto, dal Ghirlandaio, o da Sandro Botticelli. Tutti
questi uomini sono vestiti di una lunga tonaca rossa, hanno il capo
coperto di un cappuccio fatto a punta, il quale ricopre pure loro la
faccia, con due aperture per gli occhi. Camminano tutti a piedi
scalzi. Hanno i lombi ricinti da una fune, alcuni portano croci, ma
i due spettri rossi che aprono la marcia, portano in mano teschi
umani, ed ossa di morto. Mormorano preghiere nell’andare. Sono la
confraternita dei Sacconi rossi; il loro aspetto è propriamente
bizzarro, e vi riporta nei tempi antichi.”
Dopo che Roma, nel 1870, diventò italiana, un regio decreto proibì,
per ovvi motivi di igiene, di seppellire i morti negli ospedali e
nei conventi. La Confraternita non aveva più ragione di esistere e
intorno al 1960 giunse all’estinzione. Una tradizione così
importante non poteva però finire e dal 1983 l’eredità dei Sacconi
Rossi è stata raccolta – grazie al recupero promosso dal Centro
Luigi Huetter - dalla Venerabile Arciconfraternita di Santa Maria
dell’Orto e dai padri del Fatebenefratelli, che hanno rinnovato
l’usanza di commemorare i morti nel Tevere con una suggestiva
cerimonia che si ripete ogni anno, il 2 novembre. Dopo la messa
nella chiesa di San Giovanni Calibita, si svolge la processione
sull’Isola Tiberina disseminata di lumi ad olio e si prega per i
“morti delle acque”, ossia per gli annegati. Viene lanciata una
corona di fiori nel Tevere, omaggio per tutti coloro che vi hanno
perso la vita, quindi si entra nell’oratorio dell’Addolorata e, per
la solenne benedizione delle povere ossa, si scende nella cripta,
presso il cui altare giganteggia uno scheletro rivestito di un sacco
rosso.
di
Alessandro
Venditti
29 luglio 2018
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