La più bella voce dell’Ottocento corse alla difesa di
Roma
Antonio Cotogni, il baritono garibaldino
Nel cuore di Trastevere, all’altezza del n. 13 di via dei Genovesi,
una lapide ricorda che in quella casa, il 1° agosto 1831, era nato
Antonio Cotogni, “artista sublime del canto e incomparabile maestro
che negli eccelsi splendori della fama serbò le virtù generose del
popolo donde era uscito”.
Antonio aveva umili origini. Il padre era un ceramista e aveva
trasmesso la passione per il suo mestiere al figlio, che modellava
graziosi oggetti per la fabbrica Lefevre in via di Ponte Rotto. Un
giorno, però, il ragazzino era andato a trovare un cugino
all’Ospizio di San Michele ed era rimasto senza fiato davanti alle
esercitazioni di canto degli allievi. Non aveva potuto fare a meno
di tornare in quel luogo più volte, fino ad attirare le attenzione
dei superiori. Fu affidato al maestro Scardovelli, quando la sua
voce di fanciullo aveva ancora il registro di soprano, che diventò
presto di contralto e quindi di baritono. Intanto gli eventi
precipitavano, con l’omicidio di Pellegrino Rossi e la fuga di Pio
IX a Gaeta. Il 9 febbraio del 1849 veniva proclamata la Repubblica
Romana, destinata ad avere una breve vita: i sogni di libertà
sarebbero stati soffocati nel sangue. Nel giugno del 1849, alla
difesa di Roma assediata dai francesi del generale Oudinot, c’era
anche Antonio, non ancora diciottenne, armato di un fucile. In
seguito, però, volle essere chiaro con il maestro Achille Faldi:
“Intendiamoci bene; io tu giuro che quel fucile non ho mai ucciso
nessuno!”
Cauta la Repubblica, Antonio, detto Toto, tornò al canto e nel 1851,
eseguendo un oratorio alla Chiesa Nuova ottenne tanti di quegli
applausi da provocare un mezzo scandalo, a causa dell’eccessivo
entusiasmo espresso in un luogo sacro. Da allora la sua carriera fu
tutta un susseguirsi di successi. Certo una delle emozioni più
forti, però, la provò durante la stagione 1858 – 59, a Nizza, quando
nel suo camerino entrò qualcuno che voleva congratularsi con lui.
Era il suo generale, Giuseppe Garibaldi, che lo abbracciò
affettuosamente.
Nel 1860 ci fu il debutto alla Scala, quindi l’incontro con Verdi,
che gli affidò la prima del Don Carlos. In Francia, a Passy, Rossini
lo volle ascoltare nella cavatina di Figaro. Cotogni concluse il
pezzo senza l’antipatica cadenza finale che molti artisti gli davano
per ottenere facili applausi. “Così l’ho scritta io”, disse Rossini,
improvvisando uno strambotto: “Non siete tra i baritoni / Di tal
razza asinina / Che la cadenza storpiano / Nella mia cavatina".
I riconoscimenti furono moltissimi, eppure quando morì, il 15
ottobre del 1818, era ormai solo e dimenticato.
di
Cinzia Dal
Maso
12 ottobre 2016
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