Il peperoncino, che
cattivo affare!
Il peperoncino è entrato di prepotenza anche
nella cucina tradizionale romana. Pasta col tonno, broccoli e
salsicce, melanzane a funghetto non sarebbero la stessa cosa senza
quel piccolo brivido che proviamo ogni volta che il suo gusto
piccante ci fa bruciare per qualche minuto la lingua o – in qualche
caso – la bocca intera.
La sua, però, è una storia che viene da
lontano, sia nel tempo che nello spazio. L’archeologia ha dimostrato
che il peperoncino in Messico era conosciuto già 9.000 anni fa ed
era coltivato fin dal 5.500 a.C.
A portarlo in Europa fu Cristoforo Colombo, che
lo aveva conosciuto già nella prima delle sue spedizioni nelle
Americhe. Il frate domenicano Bartolomeo de Las Casas, infatti,
annotava sul diario di bordo che gli indigeni mangiavano una
“spezia” che era abbondante e “più importante del pepe nero”.
In effetti gli Aztechi utilizzavano un tipo di
peperoncino rosso persino per preparare con le bacche di cacao una
bevanda che, con le opportune modifiche, avrebbe conquistato il
mondo: la cioccolata, che per loro era il cibo degli dei.
Anche Diego Alvaro Chanca di Siviglia, medico
di bordo della flotta di Colombo, si era accorto del peperoncino, la
saporita e piccantissima spezia di cui si nutrivano gli indigeni, e
a cui davano il nome di “agi”.
I reali di Spagna avevano bisogno di
rimpinguare le loro casse che si andavano esaurendo nell’improba
lotta per cacciare i musulmani dalle loro roccaforti iberiche.
Finanziarono allora una nuova spedizione a Colombo, che nel 1493
salpava dal porto di Cadice con ben 17 navi e 1500 uomini. L’anno
seguente il peperoncino – con il nome di pepe d’India - arrivava in
Europa, con grande dispiacere dei portoghesi che avevano il
monopolio sul commercio del pepe, assai più raro e costoso della
nuova “spezia”.
Ma a Isabella di Castiglia e Ferdinando
d’Aragona il peperoncino non portò mai i lauti guadagni sognati.
Infatti, come tutti sanno, il piccante frutto giungeva a
destinazione con il suo prezioso contenuto di semi. Ecco cosa
sosteneva nel Cinquecento Nicolò Monardes, autore di un trattato
“Delle cose che vengono portate dalle Indie Occidentali pertinenti
all’uso della medicina”: il peperoncino si usava proprio come le
spezie aromatiche “che si portano dalle Molucche”. Con la
differenza che quelle “costano molti ducati, et quest’altre non
costa altro che seminarle”.
Non solo, il peperoncino, frugale e versatile,
attecchiva e si acclimatava in tutto il vecchio continente,
contentandosi di un po’ di sole e di innaffiature nemmeno troppo
frequenti. Niente a che vedere con le vere spezie che crescevano
solo nei paesi d’origine e arricchivano i loro esportatori.
Era nata la “droga dei poveri”, che
ravvivava e insaporiva le mense più umili, fornendo il suo prezioso
apporto di vitamina C anche a chi aveva una dieta monotona e poco
nutriente.
I poveri Re Cattolici si sarebbero dovuti
consolare aspettando i carichi d’oro che arrivavano dalle nuove
terre.
di
Cinzia Dal
Maso
16
febbraio 2016
© Riproduzione Riservata |