"Non possiamo non
dirci romani", afferma Marco Onofrio - parafrasando Benedetto Croce - nel titolo
di un suo recente saggio (Edilazio, 272 pagine, 22,00 euro). Infatti, spiega
nell’introduzione al volume, "essere romani finisce quasi per costituire un
attributo dell’essere umani". Roma è per Marco Onofrio una delle città più
aperte del mondo, la mamma che accoglie tutti. Ma è anche la città in cui ogni
uomo, "di qualsiasi epoca e provenienza, è messo nelle condizioni di
ri-conoscersi, di sentire un brivido eterno, di sfiorare la propria essenza".
Così lo studioso ha raccolto nel libro cinquanta saggi che permettono di
conoscere i rapporti – ammirati, conflittuali, a volte difficili – con la città
eterna di illustri personaggi. C’è la Roma dei poeti, quella piccolo borghese di
Giorgio Caproni maestro elementare alla "Francesco Crispi", quella barocca di
cui Ungaretti si illumina, quella periferica di Pasolini, appassionato di calcio
dilettante. "Anzi: del pallone, per estensione metonimica", spiega Onofrio. "la
partita è improvvisata e confusa, e spesso di gioca in mezzo al fango, o sui
prati secchi, o sugli spiazzi di terra battuta delimitati da mucchi di rifiuti.
Lo scenario è quello delle borgate. O dei palazzi dozzinali delle nuove
periferie. Dove si agitano i ragazzi di vita, in cerca di esperienze e di
possibili emancipazioni".
Roma è stata anche
il teatro dell’incontro di Totò e Pasolini. Entrambi amavano questa città, anche
se in modo diverso. "Erano due grandi poeti, due lucidi scrutatori dell’animo
umano. Amavano sinceramente gli umili".
Anche alcuni
stranieri innamorati di Roma popolano il libro di Marco Onofrio: Ingeborg
Bachmann, Martin Heidegger, Goethe o Gogol, "uno di quei giganti sommersi della
cui statura ci si rende tanto più conto in retrospettiva e come in controluce".
"Estasiato dal clima solare di Roma e dalla verità umana di Trastevere, Gogol
considerava la città eterna come il luogo della sua felicità personale e
creativa, il buen retiro dove poter ritrovare se stesso e sentirsi in pace con
il mondo". Qui avrebbe portato a termine la sua maggiore impresa letteraria, "Le
anime morte", come avverte ancora la lapide apposta sulla casa che abitò a via
Felice 126, oggi via Sistina 125. A Roma lo scrittore russo incontrò Giuseppe
Gioachino Belli e attraverso i suoi sonetti, conosciuti in anteprima, imparò a
interpretare la città. James Joyce, invece, odiò Roma, dove soggiornò nel
periodo più buio e desolato della sua vita. Non riuscì ad ambientarsi, si
sentiva solo, disadattato, esule, ricominciò a bere ed era oppresso dalla
miseria.
di
Antonio Venditti
12 dicembre 2013