La travagliata storia
dei busti del Pincio
Durante
la Repubblica Romana del 1849, nella città eterna si verificarono
una grave crisi economica e una conseguente disoccupazione. Come
riferiva Luigi Lancellotti nel suo diario, "Sterbini radunò vari
deputati dei rioni di Roma per concertare i mezzi di attivare
sollecitamente dei lavori di pubblica utilità onde occupare gli
oziosi". Anche gli artisti, dopo la fuga di Pio IX a Gaeta, erano
rimasti senza lavoro. Il Triumvirato, il 28 maggio 1849, stanziando
un fondo di ben 10 mila scudi, stabilì di "venire in soccorso" a
pittori e scultori, precisando che i "lavori di scultura saranno
dedicati a rappresentare in erme i grandi uomini italiani" e "i
lavori di pittura saranno volti a far copia di quadri celebri". Si
decise così di collocare i busti di personaggi illustri al Pincio,
anche se poi l’assedio francese e la caduta della Repubblica ne
impedirono l’attuazione. In seguito, il restaurato governo
pontificio si trovò impegnato nella riparazione dei tanti danni
causati dagli eventi bellici e non pensò ai busti, che vennero
depositati in un magazzino, nella residenza del ministro del
Commercio, palazzo Borromeo. L’architetto camerale Luigi Poletti –
all’inizio del 1850 - aveva chiesto e ottenuto dal ministro la
donazione dei busti al Comune di Roma, ma la loro sistemazione al
Pincio sarebbe stata complessa e piena di polemiche. Infatti, i
cardinali chiedevano che venissero esclusi i ritratti di Savonarola,
Napoleone, Beato Angelico e Leopardi. Si arrivò al maggio del 1851
senza che le sculture venissero ritirate. Intanto il ministro aveva
cambiato stanza e si vedeva costretto a togliere i busti dal
magazzino di palazzo Borromeo: il comune rischiava di perdere il
dono. L’intervento di Pio IX fu deciso e inequivocabile: le erme
dovevano essere collocate "con sollecitudine ad ornamento della
Passeggiata del Pincio". Vennero consegnati cinquantadue busti,
escludendone alcuni che "non dovevano figurare in quella località".
Infatti secondo il Pontefice, i ritratti di Beato Angelico e di San
Tommaso mal si adattavano a un luogo profano. Da una nota ufficiale
di Poletti, risalente al giugno del 1851, sappiamo che le erme
ritirate erano 53. Tra queste figuravano Metastasio, Canova,
Tiziano, Palladio, Vittorio Alfieri, Bartolomeo Pinelli, Torquato
Tasso, Michelangelo e Raffaello.
Cominciò la loro sistemazione nei viali alberati. Rimanevano però
presso il ministero alcune erme "scomode", di personaggi considerati
atei, eretici o rivoluzionari. Il conte Antonelli, conservatore di
Roma, le richiese comunque, specificando che sarebbero state
"ridotte ad altre somiglianze e collocate sul posto variate di
aspetto e di denominazione". Intanto un francese molto influente si
era vivamente lamentato per la presenza, tra i ritratti di Goldoni e
Metastasio, di quello dell’Alfieri, che con la sua opera "Il
Misogallo", si era dichiarato apertamente antifrancese. Il busto fu
prontamente rimosso e sostituito con quello di Alessandro Verri.
L’Alfieri veniva prontamente sottoposto a una "plastica facciale"
che lo trasformava in Vincenzo Monti.
Nel
gennaio del 1860 si diede il via a tutte le altre metamorfosi. Lo
scultore Stocchi fu incaricato di mutare Girolamo Savonarola in
Guido Aretino, modificando l’abito domenicano. Caio Gracco doveva
diventare Vitruvio, rendendolo calvo e aggiungendo qualche ruga, lo
storico Pietro Colletta era cambiato in Plinio il Vecchio. Niccolò
Machiavelli mutava nome, prendendo quello di Archimede.
Lo
scultore Sarrocchi si occupò di un altro gruppo: Erasmo Melata,
meglio conosciuto come Gattamelata, diventava Orazio semplicemente
rifacendo l’iscrizione. Con qualche ritocco al viso e all’abito
Pierluigi da Palestrina prendeva il posto del veneziano Paolo Sarpi.
Giacomo Leopardi si trasformava come per incanto in Zeusi, un
pittore greco del V secolo a. C.
Allo
scultore Angelo Conti fu affidato il compito di realizzare Giovanni
dalle Bande Nere e Lorenzo il Magnifico.
Per
quel che riguarda i busti di altri personaggi sgraditi, ma difficili
da trasformare, si preferì renderli ignoti.
Quanto
ai rimanenti, Napoleone finì nei pressi della Casina Valadier. San
Tommaso doveva essere donato alla biblioteca Casanatense, ma il
Senato di Roma lo volle in Campidoglio, nel Palazzo Senatorio.
Rimanevano nel casino solo Pompeo Magno e Ennio Quirino Visconti,
che, senza ulteriori polemiche, furono posti sui loro piedistalli.
di
Cinzia Dal Maso
05 settembre 2012 |