Il
percorso espositivo si articola in tre diverse sedi, tutte
prestigiose e significative: il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio
del Divo Romolo nel Foro romano. Più di cento le opere scelte -
sculture, rilievi, mosaici, affreschi, bronzi e monete - per narrare
una vicenda complessa e affascinante, percepita ancora oggi
dall'opinione diffusa nell’immaginario collettivo - in Italia come
nel resto del mondo - secondo stereotipi ricorrenti, particolarmente
influenzati da ideologie e esperienze politiche dell'età
contemporanea, dalla Rivoluzione francese al fascismo. Il fenomeno
trova un riflesso immediato nei romanzi storici e soprattutto nel
cinema, a cui la mostra dedica un’intera sezione: qui Romani sono
quasi sempre rappresentati come un popolo violento e sadico,
razzista, le cui uniche motivazioni sono il potenziamento
dell’esercizio, il rafforzamento del dominio, lo sfruttamento delle
altre popolazioni, la repressione del dissenso politico e delle
religioni dissonanti.
La
mostra è curata da Andrea Giardina, storico e professore presso
l’Istituto Italiano di Scienze Umane e la Scuola Normale di Pisa, e
Fabrizio Pesando, archeologo e professore presso l’Università degli
Studi di Napoli L’Orientale.
Il
titolo della mostra riprende un concetto usato dagli antichi come
metafora di una potenza universale. Già lo storico Tito Livio
riportava le parole di Romolo, disceso dal cielo, per trasmettere ai
romani la sua profezia: "Gli dei celesti vogliono che la mia Roma
sia la capitale del mondo; perciò coltivino l’arte militare e
sappiano, e tramandino anche ai posteri che nessuna potenza umana
potrà resistere alle armi dei Romani".
Nell’esposizione non sono omessi gli aspetti del mondo romano che
oggi possono apparire brutali: le sofferenze inferte a intere
comunità, le guerre di rapina, la schiavitù. Questa immagine, che
corrisponde a una percezione di massa diffusa ancora oggi a livello
mondiale, viene tuttavia complicata e arricchita dalla
considerazione di altri fenomeni, presi in esame dall’ampio e
articolato percorso espositivo.
I
Romani, del resto, erano consapevoli del fatto che fin dalle origini
la loro era stata una città aperta alle altre genti. Infatti, essi
praticarono una politica dell'integrazione che non trova riscontri
di uguale entità nell'intera storia universale: non avevano il
concetto di purezza della stirpe, concedevano facilmente la
cittadinanza, liberavano gli schiavi con procedure semplici e lo
schiavo liberato era quasi un cittadino, i cui figli risultavano
cittadini di pieno diritto. L’espressione più limpida e consapevole
dell’integrazione romana è il discorso con il quale l’imperatore
Claudio, nel 48 d. C., convinse il Senato a concedere a cittadini
Galli l’accesso a magistrature romane. Dopo aver ricordato come
regioni e popoli d’Italia si fossero fusi nel nome di Roma, Claudio
spiegò che accogliendo come cittadini i Transpadani si era potuto
"risollevare l’Impero stremato, assimilando le forze più valide
delle province".
"Perché
pensate che siano decaduti Spartani e Ateniesi"? La risposta è quasi
ovvia: "perché trattavano i vinti come stranieri". "Romolo invece,
il fondatore della nostra città – continuava Claudio - fu così
saggio da considerare parecchi popoli, in uno stesso giorno, prima
nemici e subito dopo concittadini. Stranieri ebbero presso di noi il
regno e abbiamo affidato uffici pubblici a figli di schiavi
affrancati". In ultimo, Claudio assestò anche un colpo mortale a
quel tradizionalismo privo di significati che troppo spesso
paralizza le nostre azioni e i nostri pensieri: "tutte le cose che
ora si credono antichissime, un tempo furono nuove. Dopo i
magistrati patrizi vennero i plebei. Dopo i plebei i Latini. Dopo i
Latini quelli degli altri popoli italici. Anche la deliberazione di
oggi invecchierà e quello che adesso noi giustifichiamo con antichi
esempi, un giorno sarà citato tra gli esempi".
La
mostra è completata da un ricco volume di studi pubblicato da Electa,
con saggi di studiosi italiani e stranieri.