era nato a Roma il 25 novembre 1823 da Antonio
e da Vincenza Campanelli, entrambi di Ciciliano, presso Tivoli. Fu
battezzato nella chiesa di S. Andrea delle Fratte. La sua casa,
all’altezza del civico 79 di via Due Macelli, è oggi scomparsa.
Si
laureò in giurisprudenza, senza mai esercitare la professione di
avvocato. Le sue grandi passioni furono l’attività letteraria e
soprattutto quella politica. Infatti, come disse Terenzio Mamiani,
"quantunque fornito di buoni studi letterari e bene avviato alla
carriera giuridica, nulla valse a distrarlo dall'amore suo intenso
ed inestinguibile per la gran causa nazionale. Ancor giovinetto
assaggiò lo squallore del carcere per sospetti ed accuse che non
potettero essere provate". Scrisse "Il burbero benefico", un
melodramma rappresentato al teatro Valle nel 1841, con le musiche di
A. Carcano. Del 1842 è il volume "Una giornata di osservazione nel
palazzo della villa di S. E. il principe d. Alessandro Torlonia".
Particolarmente interessanti le "Memorie della Storia d’Italia
considerata nei suoi monumenti" (1842 – 43).
Si
entusiasmò per le aperture liberali di Pio IX e organizzò
dimostrazioni del Circolo Popolare.
Nel '48
si arruolò fra i volontari, nella prima Legione romana, destinata a
diventare il 10° reggimento di linea. Partì sottotenente e prese
parte alla difesa di Vicenza. Quello stesso anno fu promosso tenente
e poi capitano aggiunto nello Stato Maggiore della prima Legione. Fu
poi nominato segretario della Legione e in seguito membro del
Consiglio di Guerra della Divisione.
Quando
era ancora sottotenente fu ferito e grazie alla sua condotta ottenne
una menzione d’onore.
Uno
volta tornato nella città natale, partecipò alla difesa della
Repubblica Romana, combattendo sia a Velletri che sul Gianicolo.
Nel
febbraio del 1850 aveva subito un breve arresto, perché ritenuto
coinvolto in un curioso incidente: mentre passeggiava in carrozza
con la sorella lungo la via del Corso, durante il Carnevale, il
figlio primogenito del principe di Canino aveva ricevuto un mazzo di
fiori che conteneva una granata. L’esplosione dell’ordigno aveva
ferito, fortunatamente in maniera non grave, i due fratelli. Una
volta scarcerato, il Checchetelli preferì andare a vivere nel paese
d’origine dei genitori. Lì lo andò a cercare il pittore e patriota
Nino Costa, che lo convinse a tornare a Roma, dove trovò anche
lavoro, come bibliotecario del duca Lorenzo Sforza Cesarini, per
trenta scudi al mese. Il Checchetelli fu tra coloro che tentavano di
rafforzare quell’Associazione nazionale di cui Mazzini aveva fondato
a Roma il primo nucleo.
Dopo un
tentativo di rivolta fallito sul nascere nel 1853, la pressione
della polizia pontificia lo costrinse a rifugiarsi nuovamente a
Ciciliano. Tornato a Roma, entrò nella dirigenza del Comitato
nazionale romano e si impegno nelle manifestazioni a favore della
seconda guerra d’indipendenza.
Nel
1861 si vide costretto a emigrare a Torino, dove si mise a
disposizione del ministro Ricasoli. Da più parti era ritenuto,
insieme con Augusto Silvestrelli, il rappresentante ufficiale dei
liberali romani. Per Paolo di Campello era un "uomo antico, tanta
era la rettitudine del suo carattere". Secondo Raffaele De Cesare
"possedeva un grande equilibrio di spirito".
Ricasoli considerava il Comitato romano una sorta di partito da
tenere vicino al Governo e a cui affidare un’opera di propaganda,
informazione e preparazione di varie iniziative a sostegno
dell’azione unitaria.
Checchetelli fu deputato dal 1861 al 1870, ma senza svolgere una
particolare attività parlamentare e limitando i suoi interessi alla
questione romana o all’emigrazione.
Il
fallimento della rivolta dell’autunno del 1867, culminata nella
sconfitta garibaldina di Mentana, portò un vespaio di polemiche sul
Comitato romano. Checchetelli, su cui piovvero le denunce, per lo
più ingiuste, di aver trascurato la preparazione dell’opinione
pubblica e il rafforzamento del partito, scomparve dalla vita
politica e pubblica italiana. Solo nel settembre del 1870 fu
chiamato, insieme a altri esperti, a ragguagliare il ministro
Visconti sull’eventualità di una insurrezione romana. Tornò a Roma
dopo la breccia di Porta Pia, senza ruoli politici particolari.
Fino da
giovane aveva sofferto di mal di fegato, che andava peggiorando con
il trascorrere degli anni. Nel 1874 il dottor Francesco Sani, un
liberale suo amico, lo operò di calcoli, senza ottenerne la
guarigione.
Morì in
povertà a Roma il 19 marzo 1879.