era nato a Roma il 20 aprile 1823. Il padre Antonio, brigadiere dei dragoni
pontifici e capo dei domatori di cavalli, ossia caposcozzone, appassionato di
storia romana, aveva chiamato i suoi primi figli Cesare, Augusto e Annibale e
aveva trasmesso loro l’amore per la libertà e l’indipendenza nazionale. Nel
marzo del 1848 Cesare e Annibale si arruolarono volontari nel battaglione
universitario partecipando alla I guerra d’Indipendenza. Una volta tornati a
Roma, furono tra i difensori della Repubblica Romana e in seguito militarono
nell’Associazione nazionale mazziniana.
Cesare, nonostante
avesse studiato l’arte del mosaico e dell’incisione dei cammei, si mise a fare
l’oste. Il suo carattere impulsivo iniziò a procurargli seri problemi. Nel 1851
il Consiglio di guerra francese lo condannò a quattro mesi di prigione per una
rissa scoppiata con alcuni soldati che avevano mangiato nella sua osteria senza
pagare il conto.
Nell’agosto del
1853 fu coinvolto, insieme con Annibale, in un tentativo di insurrezione a Roma.
Scoperta la congiura, i due fratelli dovettero affrontare un complicato
processo, durante il quale si impegnarono a non compromettere gli amici. Cesare
fu condannato a 10 anni di reclusione e Annibale all’ergastolo, pene in seguito
fortemente ridotte. Alla fine del 1856 Cesare poteva tornare in libertà e
riprendere l’attività di oste, che però dovette presto abbandonare a seguito del
rincaro del vino.
Nel 1860 lavorava
come facchino per la ferrovia Roma-Civitavecchia, ma una lite con un collega gli
costò un altro mese di galera. Continuava il suo impegno politico, partecipando
a manifestazioni contro il governo pontificio, fino a quella tragica del 29
giugno 1861. Durante la festa per i santi patroni di Roma, all’improvviso, su un
edificio in costruzione a piazza San Carlo al Corso furono illuminati due grandi
quadri trasparenti raffiguranti Vittorio Emanuele II e Napoleone III, mentre
dalle basi delle colonne della chiesa vennero incendiati dei bengala bianchi,
rossi e verdi. Nella confusione che ne seguì, dodici gendarmi provenienti da via
della Croce cominciarono a caricare la folla, imitati da altri gendarmi di
guardia al Corso e coadiuvati da quaranta uomini del tenete Naselli, che
menavano colpi di sciabola alla cieca. Solo l’intervento della gendarmeria
francese evitò una strage. Un tale Francesco Velluti, capopattuglia dei gendarmi
pontifici, fu raggiunto sotto palazzo Ruspoli da una pugnalata alla coscia
sinistra e da una al basso ventre. Il Lucatelli, ferito alla testa e all’addome
dai gendarmi pontifici, fu arrestato come presunto aggressore. Intanto il
Velluti, ricoverato al San Giacomo, cessava di vivere.
Al processo tutto
fu contro Cesare: 9 testimoni a carico, nessuno a discarico. Il difensore
d’ufficio tentò senza successo di sostenere una rissa tra più persone e
l’ubriachezza del suo assistito. Fu ritenuta l’arma del delitto un coltello
trovato in terra al Corso, la cui lama, però, non corrispondeva con la natura
delle ferite sul corpo del Velluti. Si accusò il Lucatelli di essersi vestito
con i colori della bandiera italiana,ma egli rispose di avere un unico paio di
pantaloni d’estate, bianchi. La camicia, comperata usata, era a strisce bianche
e rosso cupo. Quanto alla fascia verde che avrebbe portato alla vita, non era
altro che la cinta della divisa dei facchini, con tre fibbie sulla pancia e di
colore nero, che i ripetuti lavaggi avevano reso verdastra.
La sentenza fu
unanime: condanna a morte per omicidio "con animo deliberato, e per ispirito di
parte". Vani tutti i tentativi di ottenere la grazia. Inutili furono gli sforzi
per salvarlo. L’esule pontificio Giacomo Castrucci tentò perfino di
autoaccusarsi del delitto davanti al procuratore di Firenze.
Solo la sera prima
dell’esecuzione, alle 11, la sentenza fu comunicata al condannato, che l’accolse
con incredibile fermezza. Durante la notte i confratelli di San Giovanni
Decollato tentarono in ogni modo di far confessare e pentire Cesare, che da
parte sua chiese, senza ottenerlo, di poter rivedere il fratello Annibale,
recluso al San Michele.
La mattina del 21
settembre fu portato a piazza Bocca della Verità, dove era stato innalzato il
patibolo. Prima di salirvi, strinse al petto un crocifisso e pregò, quindi si
avviò con fermezza, dicendo ai gendarmi: "guardate come va a morire il Lucatelli",
acclamando l’Italia e augurandole l’antica gloria. Si rivolse al popolo
protestando la sua innocenza, finché i tamburi lo interruppero. Il carnefice lo
obbligò a mettere sul ceppo la testa, che dopo poco sarebbe stata mostrata ai
presenti.