E’
un grido di dolore quello che apre il volume Renato Mammucari "Ottocento romano"
(Edimond 2011, 468 pagine, 65,00 euro): espressione dello sconforto che assale
l’autore nel vedere da troppo tempo la pittura romana del XIX secolo relegata in
una posizione di netta inferiorità rispetto a quella del resto d’Europa, a causa
"dell’errato pregiudizio di un provincialismo pittorico". Purtroppo nemmeno le
mostre più recenti hanno saputo restituire la giusta dignità a un periodo
artistico di enorme interesse, ancora non del tutto esplorato. Mammucari si
rimbocca le maniche e con raro acume critico ripercorre la storia dell’arte
dell’Ottocento, con tutte le sue scuole e le sue tendenze, per dimostrare -
spiega Laura Gigli nella sua introduzione al volume – "come quelle stesse spinte
di rinnovamento culturale e di modernità che ne costituiscono il substrato si
trovano, in realtà, sia nella cultura figurata incarnata da quegli artisti che
nell’Urbe sono nati e vissuti, sia da quelli che rappresentano l’articolato
panorama storico e politico dei vari Stati della penisola e dell’Europa: tutti,
nella Città eterna, hanno trovato la sorgente ispiratrice del rinnovamento della
cultura e della loro formazione". Una tesi suggestiva e intrigante, suffragata
dal ricchissimo apparato iconografico del volume.
Tra i molti esempi
di forte impatto emotivo, la grande tela di Onorato Carlandi del 1870, "Il
ritorno da Mentana", che racconta, con l’amarezza degli sconfitti, "non l’impari
lotta ma la disfatta, resa ancora più angosciosa da uno squallido e piatto
paesaggio invernale". I reduci dalla battaglia avanzano tristemente, scortati da
soldati pontifici e zuavi francesi, nelle cui mani appaiono sinistramente gli
chassepots, i nuovi fucili a retrocarica che avevano determinato l’esito dello
scontro. Si tratta di un’opera che costituisce un valido contributo al realismo
pittorico rinascimentale e precorre la "Fiumana" di Giuseppe Pellizza da Volpedo
(1896).
Uno dei dodici
capitoli in cui si divide il volume di Mammucari è dedicato a Nino Costa, non
solo grande pittore e fervido patriota, ma anche moralizzatore dell’arte
italiana, "ribellandosi alle fredde composizioni costruite fra le pareti degli
studi senza ispirazione e sentimento, esortando a studiare il paesaggio
direttamente dal vero, nella campagna, col solo ausilio del cavalletto e della
tavolozza con i colori, in quanto", come diceva lo stesso pittore, "è il
sentimento che deve stare prima di ogni cosa, nel mezzo di ogni cosa, dopo ogni
cosa".
Non potevano
mancare gli acquerellisti romani, riuniti in una società con Ettore Roesler
Franz per presidente e Nazareno Cipriani per segretario. Buona parte degli
acquerellisti, sottolinea Mammucari, fu protagonista, "come individualità e come
istituzione, della vita artistica della capitale per quasi cinquanta anni,
produssero opere di vero e genuino valore artistico e portarono avanti con
coerenza, e anche contro corrente, un loro discorso figurativo che senz’altro
servì a non farci perdere di vista la natura e la società che viveva e operava
in essa, contribuendo in maniera determinante a evitare che le avanguardie si
allontanassero troppo dall’uomo tradendolo del tutto, così come purtroppo molte
volte successivamente è accaduto".
Mammucari riesce a
trattare con lo stesso impegno la dimensione popolareggiante dell’arte e quella
aulica e solenne, che si incontrano in quella sorta di immenso cenacolo della
cultura romana in cui convergono italiani e stranieri. "Promana dalle vicende
raccontate dall’autore, che giungono fino alla fine del secolo – avverte Claudio
Strinati – una sorta di fratellanza universale nel nome dell’arte in cui ancora
una volta si riconosce quella ‘communis patria’ che Roma è stata per secoli".
Ma folclore e
intonazione neoclassica si ritrovano anche nell’intensa produzione che ci ha
lasciato "er pittor de Trastevere", Bartolomeo Pinelli, attento osservatore,
abile incisore e anche un po’ narcisista, visto che aveva inserito la propria
immagine in più di un acquerello, magari nelle vesti di un feroce bandito o di
un dannato sulla barca di Caronte. Analizzando i tanti acquerelli e soprattutto
le incisioni dedicati dal Pinelli ai briganti, Mammucari si rende conto di
essere di fronte all’equivalente pittorico di quell’analisi della società
dell’epoca che nello stesso tempo veniva portata avanti da drammaturghi,
romanzieri e musicisti. "I titoli di tali acqueforti tradiscono proprio un
linguaggio più letterario che pittorico, quasi calligrafico", "quasi il
susseguirsi di una serie di fotogrammi senza soluzione di continuità da
proiettarsi con una lanterna magica ancora da inventare".