I filtri d’amore nell’antica Roma Malefici, pozioni, incantesimi e rituali di duemila anni fa
Amatoria pocula: si chiamavano così nell’antica Roma i filtri d’amore. Erano considerati potenti veleni e il loro utilizzo malefico era già vietato nelle antiche leggi delle XII tavole (V secolo a. C.). Il divieto fu ribadito in seguito anche dalla lex Cornelia de sicariis et veneficiis, promulgata da Silla nell’81 a.C. Nonostante le proibizioni, gli amatoria pocula erano diffusissimi e non solo negli strati bassi della popolazione. Se vogliamo prestare fede alle parole di Svetonio, l’imperatore Caligola impazzì a causa di un filtro d’amore somministratogli dalla moglie Cesonia. San Girolamo nel suo Chronicon riporta la notizia, piuttosto contestata, che persino il poeta Lucrezio, autore dell’opera filosofica "De rerum natura", fosse stato vittima di un potente filtro d’amore. "Per intervalla insaniae", ossia nei brevi periodi di liberazione dagli effetti nefasti della pozione, sarebbe riuscito a comporre la sua opera. Il filosofo Apuleio fu invece accusato di aver circuito una ricca vedova, di circa dieci anni più grande di lui, costringendola a sposarlo grazie a un potente filtro a base di strani e non meglio identificati pesci magici. L’accusa di "crimen magiae" a suo danno, che prevedeva la pena di morte, si concluse con un nulla di fatto per mancanza di prove. Gli ingredienti delle bevande magiche erano disparati: nelle ampolle delle fattucchiere non mancavano le viscere di rana e di rospo, le piume di gufo e barbagianni, serpenti ed erbe sepolcrali. Ovidio ricorda filtri d’amore a base di vino e piretro, oppure realizzati con pepe nero e semi di ortica. I carmina, le terrificanti formule magiche che accompagnavano i rituali, erano capaci - come sentenziava terrorizzato il poeta Virgilio - "di far precipitare la luna giù dal cielo". Per riconquistare l’amato oggetto del desiderio c’era anche chi ricorreva alla defissione, una pratica magica con cui nell’antica Roma si consacravano agli dei inferi su una tabella di piombo i nemici che si intendevano punire. Si poteva defiggere un rivale o una rivale in amore e - perché no - anche l’infedele compagno o l’adultera. "Arda Successa d’amore, possa bruciare d’amore o di desiderio per Successo!", implorava agli dei inferi un marito dubbioso dell’affetto della sua donna. A una ruota a quattro raggi, detta "turbo", si legava un povero uccellino. La ruota veniva poi fatta girare con una corda o una frusta. Era credenza diffusa che la tortura del povero animaletto assicurasse il ritorno dell’amato o dell’amata. Bamboline di cera venivano sciolte nel fuoco per far sì che il cuore dell’amato si intenerisse dinanzi alle fiamme della passione. Orazio descrive persino uno spaventoso infanticidio rituale: in una spettrale notte romana un giovinetto viene ucciso da due orribili streghe, Canidia e Sàgana, e le sue viscere utilizzate per un incantesimo d’amore. Ma al di là di malefici e perfidi rituali la saggezza antica in materia d’amore è piuttosto racchiusa nel celeberrimo "ut ameris, ama" ovvero "affinché tu sia amato, ama". Di sicuro molto più rassicurante.
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