L’arte di Ida Nasini Campanella: "intime" vedute della Città Eterna

di Annalisa Venditti

Solo chi vive a Roma conosce certi inaspettati "risvegli" della città. Come quelle albe, offuscate dalle nubi del cielo, che sopraggiungono inattese sulla metropoli eternata dal tempo. Sono "dipinti" naturali fatti di imprevedibili luci e inestimabili forme monumentali che non trovano eguali altrove. E poi c’è la poesia del Tevere, il grande vecchio addormentato in cui tutto si specchia e s’acquieta. Così è Roma in un acquerello su carta realizzato nel 1953 da Ida Nasini Campanella (1894-1979), pittrice di rara sensibilità, nata e cresciuta a Roma, dove mosse i suoi primi passi d’artista. Castel Sant’Angelo si mostra agli occhi di chi guarda nella sua ponderosa mole, circondato da una città cresciuta velocemente intorno alle Chiese e agli antichi monumenti. Da lontano, immersa nel grigiore di una giornata uggiosa, è la grande Cupola della Cristianità, mentre il ponte, con i suoi angeli di pietra, si riflette nell’acqua del fiume. C’è sempre l’ombra di un’attonita riflessione nelle tele della Nasini Campanella che, molto giovane, manifestò la sua attitudine artistica. Appena quindicenne, infatti, "dopo non lievi lotte famigliari" frequentò l’Accademia di Belle Arti di Roma e la scuola serale libera del nudo, dove si diplomò nel 1914, perfezionando l’apprendistato artistico con Aristide Sartorio, Umberto Coromaldi, Ettore Ferrari, Duilio Cambellotti e Giuseppe Cellini.

Ed è nei ritratti familiari che questo atteggiamento nei confronti del reale si rende più evidente. A mostrarlo sono i gesti intimi e composti delle sue figure dai grandi occhi sgranati, che appaiono sempre fermate nell’attimo di un’intensa riflessione o nell’imminenza di una fugace scoperta. Del colore l’artista (che poi si sarebbe trasferita in Abruzzo, in Sicilia e in Campania), sembra esplorare i toni più cupi, resi tuttavia vivi da un sapiente uso della luce. Le scale del grigio, del marrone e dell’ocra si fondono nell’emergenza dei neri, evocati a stabilire gli sfondi o ad avvolgere le intere composizioni ad olio. Una ricerca di luce, insomma, che altrettanto spesso si nutre dell’indaco degli abiti adolescenziali di bimbe dal roseo incarnato. Sono poetici sguardi sull’infanzia che non hanno nulla di retorico, ma s’inoltrano ad esplorare in profondità l’inquietudine di quella stagione umana. Di rilevante interesse anche il suo impegno nelle arti applicate (arazzi, ceramiche, miniature, stoffe dipinte, illustrazioni, disegni pubblicitari), che ben inquadrano la sperimentazione della Nasini Campanella nella temperie artistica degli anni ’20 e ’30 del Novecento. A Roma tornò nel ‘45 per insegnare Disegno e Storia dell’Arte presso l’Istituto magistrale "Vittoria Colonna". Nella splendida casa all’interno di Villa Carpegna, sull’Aurelia antica, avrebbe tratto ispirazione e nuova linfa vitale il suo amore per la natura e gli scorci della vita quotidiana della Capitale. Visioni di una città monumentale e scenografica, in cui l’artista, come ella stessa ebbe a dire, è chiamato ad "una genuina espressione della società in cui opera e del suo tempo".

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