A mezzanotte, brindisi, baldoria e cocci dalla finestra
“Na vorta” a Capodanno la tradizione era sovrana
Per conoscere usi, costumi, rituali e pregiudizi del popolo nell’Ottocento,
occorre riferirsi alla raccolta di Giggi Zanazzo
Antonio Venditti

Il Capodanno nella Roma papale riflette un’eredità ricca di tradizioni. Per
conoscere gli usi “de na’ vorta” a Roma “la notte de l’urtimo de l’anno” occorre
riferirsi alla codificazione popolare riportata fedelmente da Giggi Zanazzo: “A
mezzanotte e un minuto, ossia quanno stà per entrà l’anno novo, ortre a fa’ li
brindisi e la bardoria solita, s’hanno da buttà da la finestra tre pile de
coccio piene d’acqua, co’ tutte le pile. Sto rimedio serve per allontanasse da
casa la jettatura, la sfurtuna e tutti l’antri sciangherangà (disgrazie) der
medemo genero. A tempo mio - prosegue Zanazzo - per agurasse fra parenti e fra
amichi una bona salute e una vita longa, er primo de l’anno, usava regalasse una
pigna indorata e inargentata, come quelle che incora adesso se metteno drento a
le carzette che se fanno pe’ Befana a li regazzini . Er primo giorno de l’anno,
a Roma, se magna l’uva appassita, la lenticchia cor codichino e co’ le braciole
de majale; accusi, dice, se cònteno quatrini tutto l’anno. Nun se pagheno li
debiti, si no tutto e’ resto de l’anno nun se farebbe antro che pagà; se fa in
modo, in tutta la giornata, de sta’ alegramente, e de smaneggià più quatrini che
uno pò”. Alle “regazze”, Zanazzo raccomandava: “er primo giorno de l’anno nòvo,
annate su la porta de casa, pijate una ciavatta, e buttàtela o sur ripiano der
primo capo de scale, oppuramente de fòra der portone. Si la punta de la scarpa o
de la ciavatta, in der cascà che fa pe’ tèra, arimane arivortata verso la porta
o er portone de casa che sia, allora è segno che puro drento l’anno nòvo nu’
sposate; ma si la punta de la ciavatta arimane vortata verso l’uscita, allora è
segno che drento l’anno ve maritate certamente”.
Per sapere se entro il nuovo anno si sarebbero sposate c’era anche “la prova de
le tre fave”, o quella “de li tre aghi infilati”. Gli innamorati e gli amanti,
in particolare, dovevano guardarsi bene dal regalarsi un libro da messa e fare
molta attenzione alle azioni da compiere durante il Capodanno, “ché quer che se
fa oggi, sposa mia”, sottolineava G.G. Belli, “poi se séguita a fà pe tutto
l’anno. - Tutti li gusti hanno da esse a coppia - in sto giorno; e inzinenta in
paradiso - se dà a li santi la pietanza doppia. Eh - aggiungeva - oggi s’ha da
vive in alegria- e nun pijasse de gnisun malanno”.
In una nota, riportata nel 1646 da Giacinto Gigli nel suo “Diario”, leggiamo:
“gli huomini si lasciano crescere i capelli, et portano la zazzara come le
Donne, et al Cappello nero, che portano in testa, hanno aggiunto un fiocco di
fettuccia di seta colorata di quel colore, che più a ciascuno piace legata al
cordone del Cappello. Le Donne portano la zazzera simile all’huomini, et i
collari calati già per le spalle, tal che dalla testa di un huomo qiovane, et di
una Donna non vi è differenza, portano di più le Donne il Guardainfante, che
sono alcuni cerchii con fettuccie, che si legano alla centura, et gli alzano la
veste intorno al corpo, le vesti sono tonde da piede, e par che abbiano sotto un
crino da pulcini, che per la sua larghezza le fa parer piccole, con tutto che ad
esse gli pare di esser più belle”.
Nella Roma papale l’inizio dell’anno non sempre era tranquillo o per le epidemie
di colera, o la paura dei Turchi e dei Saraceni o per l'’inondazioni del Tevere.
All’inizio del 1649, annota il Gigli: “si seguitava ogni giorno a dirsi nella
Messa l’Oratione contro i Turchi”. “Il primo giorno di Gennaro 1652 - leggiamo
ancora nel suo Diario - fu gran pioggia con vento, et il secondo fu maggiore, in
tal modo, che la notte delli 3 di Gennaro il Tevere uscì dal suo letto, et
allagò le strade dell’Orso, di Ripetta, et de’ Giudei, et nella Chiesa della
Rotonda comparve al pari del pavimento“.
Ancora peggiore fu l’inondazione alla fine del 1870, in Roma appena divenuta
italiana, come leggiamo nei diari romani del Gregorovius alla data del 31
dicembre. “Il 28 è uscito il Tevere con spaventosa violenza, e mezza Roma è
sotto l’acqua. L’onda è salita improvvisamente alle 5 del mattino e subito ha
coperto il Corso ed è arrivata nella via del Babuino fino verso piazza di
Spagna. Dal 1805 nessuna inondazione del Tevere aveva raggiunto un’uguale
altezza. Il Ghetto, la Lungara, la Ripetta hanno patito molto. Si cabala il
danno a molti milioni. La vista delle strade, in cui canotti navigano come a
Venezia, è singolare; i lampioni ed i lumi versano sull’acqua un bellissimo
riflesso. Dalle case si grida per il pane. Per la prima volta la nuova guardia
nazionale si è distinta per i suoi pratici servizi. C’è stato un ordine
esemplare. I preti hanno gridato subito che questa è la mano di Dio, e l’effetto
della scomunica papale. Ma che ne avrà pensato il papa in Vaticano? Un’onda
selvaggia ha mandato egli stesso su Roma: somiglia all’apprendista stregone, che
non può più fermare le acque”.
Un anno terminato in tranquillità fu il 1886, come scriveva il 4 gennaio
dell’anno successivo sulla “Tribuna” Gabriele D’Annunzio con lo pseudonimo di
Puck, però “con poco spargimento di vin di Sciampagna e di poesia ditirambica.
Le cene allegre, non sine candida puella, sono state pochissime. I restaurants
eleganti erano già chiusi un’ora dopo mezzanotte. Al Caffè di Roma due sole
‘momentanee’ cenavano in compagnia di quattro o cinque uomini calvi e taciturni.
Da Doney un’artista d’operetta, in cappellino rosso, empiva delle sue risa
chiare e dei suoi motti tra napoletani e viennesi l’onestissima pace delle sale
deserte. Un farmacista elegante, in un angolo appartato, mesceva vin di Borgogna
a una piccoletta bruna che bevendo lambiva il bicchiere con la sottile lingua
rosea, graziosamente, come una gatta. E in un altro angolo due sposi novelli
mettevano sul pane un po’ di fegato d’oca, svogliatamente, con gesti assai
languidi, guardandosi negli occhi, mentre lo Chablis rideva nel bicchiere,
limpido e giallo come un topazio. I camerieri, appoggiati alle malinconiche
colonne del commendatore Azzurri, sonnecchiavano o sbadigliavano. La gran
pendola Louis XV conciliava i sonni, col tic-tac misurato”.
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